tag:blogger.com,1999:blog-42980651944924175542024-03-13T19:37:09.761+01:00 ALTRiTALIAALTRiTALIAhttp://www.blogger.com/profile/09128053771899935682noreply@blogger.comBlogger17125tag:blogger.com,1999:blog-4298065194492417554.post-51926283935291283392013-06-01T23:02:00.000+02:002013-06-01T23:05:13.413+02:00F 35, diamoci un taglio, di Roberto Ciccarelli.<a href="http://www.ilmanifesto.it/attualita/notizie/mricN/9502/"><a href="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEgbk3wKWp0J2frOIamL____DIn0byhlEHJSFsH-EVqGdZzRElXeWfiWAhlvzsBpojL2cHyM-p9RhyphenhyphenxH0qTrUBn2DmuFpve0KCkskBOdosuyAnx0c6Yg6eL9043kzNRH23XvNPIHJg8HZQJ2/s1600/bc942008fb.jpg" imageanchor="1" ><img border="0" src="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEgbk3wKWp0J2frOIamL____DIn0byhlEHJSFsH-EVqGdZzRElXeWfiWAhlvzsBpojL2cHyM-p9RhyphenhyphenxH0qTrUBn2DmuFpve0KCkskBOdosuyAnx0c6Yg6eL9043kzNRH23XvNPIHJg8HZQJ2/s320/bc942008fb.jpg" /></a></a>
158 parlamentari del Movimento 5 Stelle e di Sel, insieme a 14 deputati del Pd hanno presentato in parlamento una mozione contro il programma degli F 35. Nel 2013 già stanziati i primi 4 miliardi. Preziose risorse per mettere in sicurezza 8 mila scuole, fare 3mila asili e finanziare il reddito minimo garantito.
La mozione contro il programma degli F35 presentata ieri in una conferenza stampa alla Camera dal «gruppo interparlamentare per la pace» potrebbe essere il primo atto politico condiviso tra 158 deputati del movimento Cinque stelle, di Sinistra Ecologia e Libertà e una pattuglia di 14 coraggiosi dissidenti del Pd larghe intese che non si sono presentati davanti alla stampa. Si dice che abbiano ricevuto pressioni dai vertici del loro gruppo parlamentare che avrebbe bloccato il desiderio di altri 20 di firmare la mozione pacifista. Sempre che nel frattempo le cannonate sparate da Beppe Grillo contro Sel e Rodotà non lacerino il tessuto di rapporti che già martedì 4 giugno potrebbe ampliarsi. Da quanto si è appreso ieri dalla conferenza dei capigruppo alla Camera, i Cinque stelle presenteranno con Sel una mozione sull'abolizione della Tav Torino-Lione. Sarà discussa in aula insieme a quella contrapposta dal Pd e dal Pdl favorevoli alla grande opera. Sulla base di questa intesa nascente tra i gruppi parlamentari dell'opposizione potrebbe essere presentato un atto parlamentare congiunto anche sul reddito minimo. Questo hanno assicurato ieri i parlamentari presenti in conferenza stampa.
La mozione sugli F 35 intende impegnare il governo Letta a fermare l'acquisto di 90 cacciabombardieri di quinta generazione «Joint strike fighter». La spesa complessiva prevista pr l'Italia è di 12,9 miliardi di euro. Solo nel 2013 il governo staccherà un primo assegno da 4 miliardi per un progetto, si legge nel testo della mozione, che ha un costo complessivo stimato di 396 miliardi di dollari, anche se nessuno allo stato attuale è in grado di quantificare il costo finale dell'intero progetto, e quindi di ogni singolo aereo stimato intorno ai 190 milioni di dollari.
Per l'economista Giulio Marcon, deputato di Sel, con i 4 miliardi preventivati per il 2013 si potrebbe abolire l'Imu sulla prima casa, mettere in sicurezza 8 mila scuole, fare 3 mila asili nido e garantire la metà dei costi di un reddito minimo per un anno. «Di fronte alla crisi - ha detto - è una scelta folle e insensata spendere questi soldi per gli F 35. L'Italia può fare a meno dei caccia, ma non degli ospedali, di scuole di qualità o della lotta alla disoccupazione giovanile». Quanto al Pd, determinante per dare un peso decisivo alla mozione, Maria Edera Spadoni del M5S si è augurata che dia «un appoggio totale. Questi soldi potrebbero essere utilizzati per attuare la convenzione di Istanbul o per la messa in sicurezza dei territori».
Secondo il Consiglio nazionale dei geologi, dal 1996 al 2008 sono stati spesi in Italia più di 27 miliardi di euro per prevenire o per rimediare ai dissesti idrogeologici o ai terremoti. Una spesa imponente che non basta a garantire la sicurezza di 6 milioni di italiani che abitano nei 29.500 chilometri quadrati considerati a rischio. In queste zone sono oltre un milione gli edifici a rischio frane e alluvioni, di questi ben 6 mila sono le scuole e 531 gli ospedali. La cancellazione degli F 35, ma anche della Tav e delle altre grandi opere, procurerebbe alle casse dello Stato le risorse finanziarie per garantire l'agibilità statica al 29% dei 42 mila edifici scolastici esistenti, mentre al 60% le più elementari norme di sicurezza come le scale d'emergenza o le porte anti-panico. In teoria sarebbe quello che vorrebbe fare il ministro dell'Istruzione Maria Chiara Carrozza che tuttavia non si è mai soffermata sui modi per recuperare queste risorse. In campagna elettorale il Pd aveva indicato la cifra di 7,5 miliardi di euro per mettere in sicurezza le scuole. Più che la cancellazione degli F35, il governo sembra pensare ai fondi dai 10-12 miliardi liberati dalla conclusione della procedura d'infrazione sul deficit, dai fondi della programmazione europea 2014-2020 e da alcune deroghe al patto di stabilità da discutere al vertice europeo di fine giugno. Sul campo ci sono dunque due modi per finanziare il welfare e l'istruzione. Quello del Pd che si concentra nella ricerca di una deroga ai meccanismi dell'austerità, e non sembra volere ridiscutere il programma degli F35, e quello di M5S-Sel che impone un ripensamento dei modelli di difesa e di sviluppo. L'esito di questo confronto dipende dal governo Letta, chiaramente orientato - lo ha ribadito ieri il ministro della difesa Mario Mauro a Uno mattina- a finanziare l'acquisto di aerei e fregate per i prossimi 30 anni. La mozione dell'opposizione riserva, infine, una stoccata a chi ritiene che l'acquisto degli F 35 avrà ricadute occupazionali sull'industria militare italiana. Le stime ufficiali parlano dell'arrivo di 10 mila nuovi posti di lavoro, mentre secondo i sindacati sarebbero solo 2 mila posti, frutto del ricollocamento dei lavoratori impegnati nella costruzione di un altro caccia, l'Euro-Fighter. La mozione parlamentare ha ricevuto l'appoggio della rete disarmo e di Sbilanciamoci che hanno raccolto 78 mila firme e 80 ordini del giorno degli enti locali come la Toscana o l'Emilia Romagna a sostegno della chiusura del dossier F 35.
31.05.2013, <a href="http://www.ilmanifesto.it/attualita/notizie/mricN/9502/">il manifesto</a>ALTRiTALIAhttp://www.blogger.com/profile/09128053771899935682noreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-4298065194492417554.post-83872598065238456732013-05-18T23:25:00.001+02:002013-05-18T23:25:16.547+02:00L'ANNACATA <b> Che coss’è l’amor?</b>
<b> Giuseppe Tramontana.</b>
<a href="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEhyhcM7OFJMfHANUcM8Ivwcl84V6ZmoRJjIIWk5t8mohWZzrcnZ2PChgea6nMkGw-rkyhrC7SOcDLLCN3KtkWm8_jhGF_fb8imszZ5wXPRgyN4qqWE50S_W-FCZWEejSCmEKc5aRwOj07xi/s1600/Dondola-Chair-by-Pucci-de_277546F7.jpg" imageanchor="1" ><img border="0" src="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEhyhcM7OFJMfHANUcM8Ivwcl84V6ZmoRJjIIWk5t8mohWZzrcnZ2PChgea6nMkGw-rkyhrC7SOcDLLCN3KtkWm8_jhGF_fb8imszZ5wXPRgyN4qqWE50S_W-FCZWEejSCmEKc5aRwOj07xi/s320/Dondola-Chair-by-Pucci-de_277546F7.jpg" /></a>
A Francofonte, il mio paese natale, tra un mesetto scarso, ossia il 9 e 10 giugno prossimi, si andrà a votare per l’elezione del Sindaco. Speriamo bene, direte voi. Ma, sapete, siamo in Sicilia, e nulla è da darsi mai per scontato, se non il fatto che, di solito (ma speriamo che questa volta il trend cambi), chi parteggia per la dignità non trae la benché minima soddisfazione dai sacrifici profusi nella battaglia. Da questo punto di visita, il mio paese natio è una specie di cassaforte chiusa a tripla mandata ad ogni forma di cambiamento. Di cambiamento in meglio, almeno: invece, il cambiamento in peggio i suoi abitanti purtroppo lo sperimentano continuamente e da troppo tempo. Ma tant’è. Ora, poiché, nonostante sia lontano, il destino del mio paesello mi sta a cuore, in mancanza di altre informazioni di prima mano, mi sono catapultato su facebook per visitare i profili dei diversi candidati. Chiaramente io un candidato, anzi, una candidata preferita ce l’ho, si chiama Alessia Piccione, ragazza in gamba e passionale, una sorta di Dolores Ibarruri al profumo di zagara, ed è la persona a cui avrei dato il mio voto se fossi stato giù ed è comunque quella che segnalerò ai miei amici affinché la votino. Ma non è di Alessia che voglio parlare. Voglio parlare di un'altra cosa. Dicevo che ho visitato i profili dei candidati. Ed a parte qualche errore sintattico o grammaticale, (ad esempio, è caccia ai grandi latitanti: il congiuntivo e le virgole!), una cosa mi ha colpito: tutti giurano di amare il paese, Francofonte, appunto. Ciò mi ha riportato alla mente un episodio di tanti, tantissimi anni fa. Siamo alle metà degli anni sessanta e, in occasione di una campagna per le politiche, comparve sui muri di tutt’Italia un manifesto della DC. Vi era raffigurata una bella ragazza bionda, capelli lisci, un sorriso dolce, sereno, sul volto, immersa in un paesaggio campestre. Indossava un vestito bianco che le giungeva fin sotto le ginocchia, a maniche corte. Era bella, innocente, pura, gentile. Sotto, la scritta, a caratteri cubitali: “La DC compie vent’anni”. Ma, alle porte di Venezia, una irriverente mano ignota aggiunse: “xe ora de ciavarla!” (è ora di chiavarla, di scoparla!). Bene, vedendo adesso tutto questo amore per il paese esternato, sbandierato, urlato, sventolato, smartellato, strombazzato, e conoscendo lo stato miserevole in cui versa la povera cittadina, mi viene da dire che l’hanno amato così tanto che, alla fine, se la sono fottuta.
ALTRiTALIAhttp://www.blogger.com/profile/09128053771899935682noreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-4298065194492417554.post-14084393739863319602013-04-05T22:30:00.001+02:002013-04-05T22:30:28.399+02:00Grillo ci ha fatto ridere, ora vuol farci piangere,
di Peppino Caldarola.<a href="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEht26KfpNz1Ox0cTJiuA4kdtHMRr2X7Kho5SY-SBJq9vlDoOWTL6XiheRzlFBUgj4i-KyARlzUTsyZ3d-XT_EIWQvK2XFurct85sF3QbElBXjt5QfsOKv4sPPfxTYp3QBIJCuvIgGqhyphenhyphenCgq/s1600/475ed5f09c4cade65a2bdee5f28ce543_M.jpg" imageanchor="1" ><img border="0" src="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEht26KfpNz1Ox0cTJiuA4kdtHMRr2X7Kho5SY-SBJq9vlDoOWTL6XiheRzlFBUgj4i-KyARlzUTsyZ3d-XT_EIWQvK2XFurct85sF3QbElBXjt5QfsOKv4sPPfxTYp3QBIJCuvIgGqhyphenhyphenCgq/s320/475ed5f09c4cade65a2bdee5f28ce543_M.jpg" /></a> ROMA - Sta andando in onda l’ennesima sceneggiata di Beppe Grillo. Il trasferimento coatto in località segreta (ma basta seguire i pullman per sapere dove vanno) dei suoi parlamentari rimette al centro della scena l’ex comico e il suo ispiratore. La tecnica di Grillo è furbissima.
Mostra disprezzo verso i mezzi di informazione ma produce eventi che attraggono tv e giornali come mosche. Probabilmente è vero che nel suo gruppo parlamentare vi siano maldipancia. Probabilmente è vero che nel suo elettorato vi siano zone di scontento verso una linea di chiusura assoluta al dialogo con il Pd. Quello che conta, però, è che Grillo è indifferente a tutto questo. Le sue tecniche di comunicazione corrispondono al suo progetto politico. E il suo progetto politico ha ben chiari alcuni punti fermi. Il primo è la destrutturazione completa dell’assetto politico-rappresentativo del paese. Al primo posto c’è la messa in crisi dei partiti sia nella forma attuale sia in quella futura. Grillo pensa a movimenti ispirati da gruppi ristretti, coordinati sulla rete, convocati periodicamente in piazza. Poi toccherà ai sindacati. In tutto ciò c’è l’idea non di una trasformazione in senso di maggiore trasparenza delle istituzioni ma della loro completa immobilizzazione. L’idea di fare un sondaggio in rete sul nome del candidato alla presidenza della Repubblica racconta meglio di un libro quale idea di democrazia si sta facendo avanti.
L’ispirazione è tratta dai movimenti di contestazione degli ultimi anni, dalle rivoluzioni arabe, agli indignatos spagnoli a Occupy Wall Street. Solo che questi movimenti avevano nel versante arabo la proposta di un cambiamento di regime in senso più democratico (poi è da vedere se sia finita davvero così), nel versante occidentale di creare potenti gruppi di pressioni che scalfissero la dittatura dell’1% che domina le nostre società con furberie e arricchimenti. Grillo ha aggiunto a questa piattaforma la sovrapposizione di un ristrettissimo gruppo di comando (con un risvolto imprenditoriale non banale visto quanto guadagna il suo blog), che decide volta a volta come attaccare il sistema. Sono vietcong della rete, tupamaros senza fucili, nelle liturgie assai vicini a quei movimenti di sinistra o di destra fortemente contrassegnati da simbolismi e riti. Nasce da qui la difficoltà del dialogo con questo coacervo elettorale. Il ”non possumus”, corredato da insulti, con cui Grillo accompagna il suo rifiuto di dialogo ha come contesto una visione totalitaria del potere, quel famoso 100% del parlamento che vuole conquistare. Difficile che accada, ma c’è invece la concreta possibilità che il parlamento attuale e quello futuro siano messi nelle condizioni di non funzionare. Nasce da qui il rischio democratico. Un paese in crisi che non riesce a far lavorare il legislatore. Finché non arriverà l’uomo forte. Che faccia, o abbia fatto, ridere nel passato è secondario, visto che vuol farci piangere.
05 Aprile 2013, <a href="http://www.dazebaonews.it/primo-piano/item/17618-grillo-ci-ha-fatto-ridere-ora-vuol-farci-piangere">dazebao</a>ALTRiTALIAhttp://www.blogger.com/profile/09128053771899935682noreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-4298065194492417554.post-77055297412074676912010-07-05T18:07:00.000+02:002010-07-05T18:11:17.127+02:00INTERCETTAZIONI, IL PUNTO.<a onblur="try {parent.deselectBloggerImageGracefully();} catch(e) {}" href="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEgYJyEd7VoHCaFahfOFIa1rvrEJ0MRYPWArotKn16wGBISGv0ONQEW-8epWeTqIJzmPYC6NHXALd_VPWIBbgZZEzBlyfuevUAcdXdHGeoBYgHVCZhBPdlPQg5bk-dL2CUNoujIcIB0_gW23/s1600/LOGO+ALTRiTALIA.jpg"><img style="float:left; margin:0 10px 10px 0;cursor:pointer; cursor:hand;width: 130px; height: 97px;" src="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEgYJyEd7VoHCaFahfOFIa1rvrEJ0MRYPWArotKn16wGBISGv0ONQEW-8epWeTqIJzmPYC6NHXALd_VPWIBbgZZEzBlyfuevUAcdXdHGeoBYgHVCZhBPdlPQg5bk-dL2CUNoujIcIB0_gW23/s320/LOGO+ALTRiTALIA.jpg" border="0" alt=""id="BLOGGER_PHOTO_ID_5490455220948124034" /></a><br />di Giuseppe Tramontana<br /><br /><br /><br /><br />Premessa<br /><br />In una situazione difficilissima per l’ordine pubblico in un paese come l’Italia, afflitto dal peso di vecchie e nuove mafie, capaci di esercitare vere e proprie forme di controllo del territorio in vaste aree del Paese, la tendenza generale, sviluppatasi da circa 15 anni, è quella della riduzione del numero dei reati più gravi, accompagnata da un costante incremento della capacità investigativa e dell’azione di contrasto esercitata dalla Polizia e dall’Autorità giudiziaria. Basti pensare al costante decremento degli omicidi, che si sono quasi dimezzati passando dai 1.065 del 1993 ai 605 nel 2008. Come spiegano gli esperti, questa accresciuta efficienza dell’azione di contrasto svolta da Polizia e Magistratura nei confronti della criminalità, in realtà, non ha alcuna relazione con le norme del nuovo codice di procedura penale, entrato in vigore nel 1989 ed oggetto di revisioni continue che hanno progressivamente aggravato le procedure, rendendo più farraginosa l’attività giudiziaria. L’accresciuta efficienza dell’investigazione penale è, in gran parte, frutto dello sviluppo tecnologico che ha fornito agli investigatori metodi di conoscenza, banche dati e strumenti di indagine, in passato sconosciuti o (quasi) inesistenti. <br />In questo contesto giocano un ruolo preminente le operazioni di captazione di conversazioni o di comunicazioni segrete in corso fra due o più persone e la documentazione del traffico di comunicazioni telefoniche o telematiche intercorse fra determinate persone o in una determinata zona.<br />Ma, oggi in Italia, proprio su queste intercettazioni si vuole incidere in negativo, per depotenziarle. Molto è stato detto e si dice ancora sui giornali e sulla stampa, soprattutto quella non di regime, sugli effetti che il ‘ddl Alfano’ avrà sulla libertà di stampa. Molto meno è stato osservato per ciò che concerne l’impatto sulla giustizia e sulla capacità di magistratura e forze dell’ordine di combattere il crimine. <br />Perché si vuol colpire questo strumento? La sensazione è che lo si voglia fare proprio perché è efficace. Con il pretesto della privacy si vuole salvare ‘cricche’ e ‘comarche’, gente impresentabile che occupa anche posti di governo. Da questo punto di vista, effettivamente, le intercettazioni sono un problema: funzionano. Sarebbe meglio il contrario. Quanto alla privacy, vacci a credere! Soprattutto se sventolata da gente che ha messo alla gogna il giudice Mesiano (quello delle calze celesti, ricordate?), la fidanzata di Fini o l’ex direttore di Avvenimenti Boffo, gente che vivacchia appollaiata come avvoltoio alla riga di un giornale, scavando negli affari dei poveri disgraziati e sputtana, facendosene un vanto, l’Italia con veline (ex od attuali) e mantenute di vario genere. <br />Ma torniamo sul nostro. Per comprendere se effettivamente il sistema attuale delle intercettazioni sia così maldestro, mal funzionante, spregiudicato, poco serio e dannoso ( per il cittadino comune, s’intende) occorre operare una piccola ricognizione della disciplina vigente. E le sorprese non mancano. L’intercettazione di conversazioni destinate ad essere segrete o riservate fra due o più persone è indubbiamente un’operazione fortemente invasiva e limitativa della libertà morale dei soggetti coinvolti ed incide su un bene pubblico che la Costituzione ha espressamente considerato inviolabile. L’art. 15 della Costituzione espressamente dichiara che: “la libertà e la segretezza della corrispondenza e di ogni altra forma di comunicazione sono inviolabili”.<br />La compressione di tale libertà individuale è ammessa soltanto: “per atto motivato dell’Autorità giudiziaria con le garanzie stabilite dalla legge.”<br />In tale materia, pertanto, vige una duplice riserva, di legge e di giurisdizione.<br />La disciplina vigente ha coniugato con rigore l’esigenza del contrasto alla criminalità attraverso gli strumenti dell’indagine penale con il bene costituzionale della segretezza e libertà della comunicazione, consentendo la compressione di tale valore della persona soltanto in presenza della necessità di repressione dei reati di maggior disvalore-sociale e sottoponendo tale deroga ad una serie di rigide garanzie procedurali. <br />In sintesi. i limiti posti dalla disciplina attuale, nel bilanciamento dei valori costituzionali, sono i seguenti:<br />a) le intercettazioni possono essere disposte solo per un catalogo limitato di reati, nel quale sono inclusi i reati di maggiore allarme sociale e sono esclusi tutti gli altri;<br />b) le intercettazioni devono essere disposte dal Giudice, su richiesta del Pubblico Ministero;<br />c) sono ammissibili solo in presenza di gravi indizi di reato, qualora l’intercettazione sia assolutamente indispensabile ai fini della prosecuzione delle indagini;<br />d) le operazioni di intercettazione devono essere effettuate nel rispetto di determinate modalità rigidamente stabilite dalla legge; <br />e) una procedura contraddittoria consente di stralciare dal processo le intercettazioni irrilevanti ai fini del procedimento, a tutela della riservatezza;<br />f) una sanzione di inutilizzabilità travolge le intercettazioni eseguite al di fuori dei limiti posti dalla legge. <br /><br />La disciplina vigente.<br /><br />1) I limiti di ammissibilità (art. 266 c.p.).<br /><br />Attualmente, l'art. 266 c.p.p. prevede, al comma 1, che l'intercettazione di conversazioni o comunicazioni telefoniche e di altre forme di telecomunicazione è consentita nei procedimenti relativi ai seguenti reati:<br />a) delitti non colposi per i quali è prevista la pena dell'ergastolo o della reclusione superiore nel massimo a 5 anni determinata a norma dell'art. 4;<br />b) delitti contro la pubblica amministrazione per i quali è prevista la pena della reclusione non inferiore nel massimo a 5 anni determinata a norma dell'ari. 4;<br />c) delitti concernenti sostanze stupefacenti o psicotrope;<br />d) delitti concernenti le armi e le sostanze esplosive;<br />e) delitti di contrabbando;<br />f) reati di ingiuria, minaccia, usura, abusiva attività finanziaria, abuso di informazioni privilegiate, manipolazione del mercato, molestia o disturbo alle persone col mezzo del telefono;<br />f-bis) delitti previsti dall'ari. 600-ter, terzo comma, c.p., anche se relativi al materiale pornografico di cui all'art. 600-quater. c.p..<br />Ai sensi del comma 2, negli stessi casi è consentita l'intercettazione di comunicazioni tra presenti. Tuttavia, qualora queste avvengano nei luoghi indicati dall'art. 614 c.p. (abitazioni o altri luoghi di privata dimora), l'intercettazione è consentita solo se vi è fondato motivo di ritenere che ivi si stia svolgendo l'attività criminosa.<br /><br />2. Presupposti e forme del provvedimento (art. 267 c.p.p.).<br /><br />Attualmente, ai sensi dell'ari. 267 c.p.p., il PM richiede al GIP l'autorizzazione a disporre l'intercettazione.<br />Il GIP, con decreto motivato, concede l'autorizzazione solo nel caso in cui:<br />(1) l'intercettazione sia assolutamente indispensabile ai fini della prosecuzione dell'indagine;<br />(2) vi siano gravi indizi di reato.<br /> <br />Nei casi di urgenza, quando vi è fondato timore di ritenere che dal ritardo possa derivare grave pregiudizio alle indagini, è lo stesso PM a disporre l'intercettazione con decreto motivato. Tale decreto va comunicato immediatamente e comunque non oltre 24 ore al GIP. Il giudice, entro 48 ore dal provvedimento, decide sulla convalida con decreto motivato. Se il decreto del PM non viene convalidato nel termine stabilito, l'intercettazione non può essere proseguita e i risultati di essa non possono essere utilizzati. <br />Il decreto del PM, che dispone l'intercettazione, indica le modalità e la durata delle operazioni. Tale durata non può superare i 15 giorni, ma può essere prorogata dal giudice con decreto motivato per periodi successivi di 15 giorni, qualora ne permangano i presupposti.<br />Il PM procede alle operazioni di intercettazione personalmente, ovvero avvalendosi di un ufficiale di polizia giudiziaria. I decreti che dispongono, autorizzano, convalidano o prorogano le intercettazioni sono annotati, in ordine cronologico, su un apposito registro riservato tenuto nell'ufficio del pubblico ministero. Per ciascuna intercettazione vengono annotati l'inizio e il termine delle operazioni.<br /><br />3. Modalità per l’esecuzione delle operazioni (art. 268, co 1, 2, 3 e 3 bis c.p.p.).<br /><br />Le operazioni di intercettazione devono essere necessariamente effettuate nel rispetto di speciali modalità previste dalla legge.<br />In particolare esse devono essere compiute esclusivamente per mezzo degli impianti installati nella Procura della Repubblica.<br />Questa restrizione può essere superata soltanto in presenza di due condizioni: quando tali impianti risultino insufficienti o inidonei ed esistano eccezionali ragioni d’urgenza.<br />In tali casi il PM, con proprio decreto motivato, può disporre il compimento delle operazioni medianti impianti di pubblico servizio o in dotazione alla polizia giudiziaria.<br />Una regola meno rigida governa le intercettazioni di comunicazioni informatiche o telematiche. In questi casi è consentito che il PM possa disporre che le operazioni siano compiute anche mediante impianti appartenenti a privati. (Ciò deriva dal fatto che – in alcuni casi – solo gli operatori privati dispongono delle apparecchiature adeguate per eseguire tali operazioni). <br /><br />4. Deposito degli atti e stralcio (art. 268, co 4, 5, 6, 7 e 8 c.p.p.).<br /><br />Una procedura particolarmente trasparente è prevista per l’attivazione del contraddittorio e l’utilizzo processuale delle comunicazioni intercettate.<br />Innanzitutto è previsto che, entro cinque giorni dalla conclusione delle operazioni, devono essere depositati nella segreteria del PM, perché i difensori ne possano prendere visione, i verbali e le registrazioni, assieme ai decreti che hanno disposto, autorizzato convalidato o prorogato l’intercettazione. Il deposito di tali atti può essere ritardato dal PM, autorizzato dal Giudice, fino alla conclusione delle indagini preliminari. I difensori hanno facoltà di esaminare gli atti e di ascoltare le conversazioni registrate. Si apre quindi un sub-procedimento che vede l’intervento del Gip il quale dovrà disporre, a richiesta delle parti, l’acquisizione delle conversazioni che non appaiono manifestamente irrilevanti, procedendo allo stralcio di tutto il resto, in contraddittorio con il P.M. e i difensori.<br />Dopo aver disposto lo stralcio delle conversazioni irrilevanti, il Giudice, di norma, disporrà la trascrizione integrale delle registrazioni, ovvero la stampa delle informazioni contenute nei flussi di comunicazioni informatiche o telematiche da acquisire, con l’osservanza delle forme per l’espletamento delle perizie.<br />I difensori possono sempre ottenere copia delle trascrizioni o delle registrazioni effettuate su nastro magnetico.<br /><br />5. Conservazione e distruzione della documentazione (art. 269 c.p.p.).<br /><br />I verbali e le registrazioni delle conversazioni intercettate sono conservate presso l’ufficio del PM che le ha disposte, di regola sino al passaggio in giudicato della sentenza che pone termine al procedimento nell’ambito del quale sono state disposte. Tuttavia gli interessati, quando la documentazione non è più necessaria, possono chiederne la distruzione al Giudice che ha disposto o convalidato l’intercettazione, a tutela della riservatezza.<br /> <br />6. Utilizzazione in altri procedimenti (art. 270 c.p.p.).<br /><br />La disciplina vigente pone divieto di carattere generale alla possibilità di utilizzazione delle intercettazioni in procedimenti diversi da quelli in cui sono state disposte, stabilendo che i risultati delle intercettazioni possono essere utilizzati in altro procedimento solo se “assolutamente indispensabili per l’accertamento di delitti per i quali è obbligatorio l’arresto in flagranza”. <br />Nel caso le intercettazioni siano utilizzate per un diverso procedimento, devono comunque essere applicate le garanzie di trasparenza e contraddittorio previste in via generale. Quindi gli atti dovranno essere regolarmente depositati presso l’autorità competente per il diverso procedimento ed i difensori avranno facoltà di esaminarli, di estrarne copia e di effettuare le opportune richieste ai fini dello stralcio.<br /><br />7. Divieti di utilizzazione (art. 271 c.p.p.).<br /><br />La disciplina in materia di intercettazioni trova la sua norma di chiusura nell’art. 271 c.p. che stronca, con la più grave della sanzioni processuali, l’inutilizzabilità, l’inosservanza dei presupposti dei requisiti e delle modalità che regolano la materia.<br />In particolare la norma sancisce l’inutilizzabilità dei risultati delle intercettazioni, nei casi in cui si sia verificata la mancata osservanza delle disposizioni previste dagli artt. 267 (in merito ai presupposti ed alle forme del provvedimento che autorizza le intercettazioni) e 268, commi 1 (redazione del verbale) e 3 (compimento delle operazioni per mezzo di impianti installati presso la procura della Repubblica, salvo casi eccezionali).<br />Le intercettazioni che cadono sotto la scure dell’inutilizzabilità possono essere distrutte, in ogni stato e grado del procedimento, salvo che non costituiscano corpo del reato.<br /><br />8. I casi di contestazione più frequenti nel diritto vivente.<br /><br />Tralasciando la disciplina in materia di acquisizione di tabulati telefonici, il carattere rigido della normativa sulle intercettazioni e la sempre maggiore rilevanza che le operazioni di intercettazione hanno acquistato ai fini della repressione dei fatti più gravi di criminalità, hanno dato luogo ad uno sterminato contenzioso giudiziario. Il controllo della motivazione dei provvedimenti dell’Autorità giudiziaria ed il rispetto dei rigorosi limiti modali imposti dalla normativa sono stati l’area di manovra su cui – quasi esclusivamente – si sono affilati i ferri nel confronto fra accusa e difesa nei procedimenti per reati gravi. <br />Al riguardo sono intervenute le Sezioni Unite della Cassazione nel 2000 (sent. nr. 17 del 21.6.2000), statuendo che “La motivazione "per relationem" di un provvedimento giudiziale è da considerare legittima quando: <br />1)- faccia riferimento, recettizio o di semplice rinvio, a un legittimo atto del procedimento, la cui motivazione risulti congrua rispetto all'esigenza di giustificazione propria del provvedimento di destinazione; <br />2)- fornisca la dimostrazione che il giudice ha preso cognizione del contenuto sostanziale delle ragioni del provvedimento di riferimento e le abbia meditate e ritenute coerenti con la sua decisione;<br />3)- l'atto di riferimento, quando non venga allegato o trascritto nel provvedimento da motivare, sia conosciuto dall'interessato o almeno ostensibile, quanto meno al momento in cui si renda attuale l'esercizio della facoltà di valutazione, di critica ed, eventualmente, di gravame e, conseguentemente, di controllo dell'organo della valutazione o dell'impugnazione.”<br />Un altro terreno sul quale si sono incrociati i ferri del confronto accusa/difesa è quello delle garanzie in tema di modalità di esecuzione delle operazioni. A fronte della inadeguatezza o insufficienza degli impianti di registrazione presso la Procura della Repubblica, nella pratica si è fatto largo uso al ricorso a registrazioni effettuate mediante impianti in dotazione alla polizia giudiziaria. Ciò ha comportato inevitabili contestazioni circa la verifica dei presupposti che consentono la deroga all’uso degli impianti installati presso la Procura. Ne è seguito un fitto contenzioso giurisdizionale. Sul punto sono intervenute le Sezioni Unite con la sentenza n. 30347 del 12/07/2007, stabilendo che: <br />“In tema di esecuzione delle operazioni di intercettazione di conversazioni o comunicazioni, l'obbligo di motivazione del decreto del pubblico ministero che dispone l'utilizzazione di impianti diversi da quelli in dotazione all'ufficio di Procura non è assolto col semplice riferimento alla "insufficienza o inidoneità" degli impianti stessi (che ripete il conclusivo giudizio racchiuso nella formula di legge), ma richiede la specificazione delle ragioni di tale carenza che in concreto depongono per la ritenuta "insufficienza o inidoneità". <br />Nella motivazione la Corte ha precisato che l'adempimento dell'obbligo di motivazione implica, per il caso di inidoneità funzionale degli impianti della Procura, che sia data contezza, seppure senza particolari locuzioni o approfondimenti, delle ragioni che li rendono concretamente inadeguati al raggiungimento dello scopo, in relazione al reato per cui si procede ed al tipo di indagini necessarie. <br />Un’altra questione oggetto di contenzioso giudiziario, sempre nel campo delle modalità di esecuzione delle operazioni di intercettazione, riguarda la problematica del c.d. “ascolto remoto”, cioè il ricorso ad una tecnologia che consente l’ascolto – in contemporanea - delle conversazioni intercettate in luogo diverso dagli uffici della Procura dove sono installati gli impianti di registrazione. Ciò normalmente avviene presso gli uffici di polizia giudiziaria, situati sul territorio, per consentire un intervento più immediato – in caso di necessità – per bloccare un’attività criminosa o catturare un latitante.<br />Anche su tale questione sono dovute intervenire le Sezioni Unite con la sentenza n. 36359 del 26/06/2008 , salvando dalla scure dell’inutilizzabilità le intercettazioni effettuate con la tecnica dell’ascolto remotizzato. Al riguardo la Corte ha statuito che “Condizione necessaria per l'utilizzabilità delle intercettazioni è che l'attività di registrazione - che, sulla base delle tecnologie attualmente in uso, consiste nella immissione dei dati captati in una memoria informatica centralizzata - avvenga nei locali della Procura della Repubblica mediante l'utilizzo di impianti ivi esistenti, mentre non rileva che negli stessi locali vengano successivamente svolte anche le ulteriori attività di ascolto, verbalizzazione ed eventuale riproduzione dei dati così registrati, che possono dunque essere eseguite "in remoto" presso gli uffici della polizia giudiziaria.” <br />Poiché poi nella prassi giudiziaria si sono - indubbiamente - verificati episodi di ricorso inflazionato allo strumento delle intercettazioni, specialmente nel caso di alcune indagini condotte dalla Procura della Repubblica di Potenza, occorre rilevare che il ricorso all’intercettazione facile è stato stroncato dalla Cassazione. In una recente pronuncia, confermando la sanzione di inutilizzabilità irrogata dal giudice del merito, la Corte ha statuito che: ”In tema di intercettazioni telefoniche, la motivazione dei decreti autorizzativi, nel chiarire le ragioni del provvedimento, in ordine alla indispensabilità del mezzo probatorio, ai fini della prosecuzione delle indagini, ed alla sussistenza dei gravi indizi di reato, deve necessariamente dar conto delle ragioni che impongono l'intercettazione di una determina utenza telefonica che fa capo ad una specifica persona, indicando pertanto il collegamento tra l'indagine in corso e la medesima persona” (Cass. Sez. VI, Sent. n. 12722 del 12/02/2009).<br />Nel diritto vivente, pertanto, le intercettazioni a pioggia, che hanno caratterizzato taluni fatti di cronaca, non trovano spazi di legittimità e sono destinate a cadere sotto la scure dell’inutilizzabilità alla luce della disciplina vigente nell’interpretazione temperata e prudente della Corte di Cassazione. <br />Come si può facilmente notare, i casi più frequenti di discussione e di attrito tra esigenza di tutela del cittadino ed efficacia dell’azione penale – gli stessi che vengono invocati quale motivo per riformare la disciplina delle intercettazioni da parte della maggioranza al governo - in realtà sono già stati ampiamente identificati e risolti dalla massima autorità giudiziaria. <br /> <br />La riforma del Governo Berlusconi<br /><br />9. Il disegno di legge Alfano (norme in materia di intercettazioni telefoniche, telematiche ed ambientali. Modifiche della disciplina in materia di astensione del giudice e degli atti di indagine. Integrazione della disciplina sulla responsabilità amministrativa delle persone giuridiche).<br /><br />Solo una attenta analisi della disciplina vigente consente di comprendere meglio il senso, la portata, l’estensione e gli effetti della riforma delle intercettazioni che il governo Berlusconi si accinge a far approvare dal Parlamento con il d.d.l Alfano.<br /> <br />9.1 I limiti di ammissibilità (nuovo testo dell’art. 266 c.p.).<br /><br />Il nuovo testo dell’art. 266 c.p.p., come introdotto dall’art. 1, commi 9, nella versione approvata dalla Camera, lascia invariato, rispetto a quello vigente, la disciplina del “catalogo” dei reati per i quali sono consentite le intercettazioni. Tuttavia la novella legislativa interviene in maniera significativa, determinando: <br />1) l’ampliamento dell’ambito di applicazione della disciplina delle intercettazioni di conversazioni o comunicazioni anche alla acquisizione di immagini mediante riprese visive e alla acquisizione dei “tabulati telefonici”, vale a dire la documentazione del traffico telefonico e delle comunicazioni in genere; <br />2) la drastica limitazione della possibilità di procedere alle “intercettazioni ambientali”, che diventano possibili solo se vi è “fondato motivo di ritenere che nei luoghi ove è disposta l’intercettazione si stia svolgendo l’attività criminosa”.<br /> <br /><br />9.2 Le intercettazioni di immagini mediante riprese visive. <br /><br />Col riferimento, poi, alla “intercettazione di immagini mediante riprese visive”, sembra che con l’intervento in esame il legislatore abbia l’intenzione di sottoporre alla disciplina delle intercettazioni tutte le diverse ipotesi che la giurisprudenza definisce di “captazione di immagini”, anche le riprese di immagini acquisite in luoghi diversi da quelli privati o addirittura in luoghi pubblici. Invero la norma in esame introduce la necessità che siano autorizzate tutte le attività di intercettazioni mediante riprese visive e non soltanto quelle che avvengano in luoghi di privata dimora. <br />Attualmente, per i luoghi pubblici o aperti al pubblico, la giurisprudenza ritiene che l’effettuazione di riprese da parte degli organi di investigazione possa essere legittima e utilizzabile nel processo penale a determinate condizioni. Si ritiene, infatti, che le semplici riprese visive (diverse da quelle che siano finalizzate a captare flussi di comunicazioni, che sono pacificamente sottoposte alla disciplina delle intercettazioni), non appartengano al genus delle intercettazioni, ma a quello delle “prove documentali”, acquisibili ai sensi dell’art. 234 c.p.p., ovvero delle prova atipiche, richiamate dall’art. 189 c.p.p. Diversa è la situazione per le riprese effettuate nei luoghi di privata dimora, che incontrano il limite della tutela della libertà domiciliare fissato dall’art. 14 della Costituzione.<br />Un approfondito esame della natura giuridica delle videoregistrazioni e del loro regolamento processuale è stato compiuto dalla Sezioni Unite della Cassazione con le sentenza nr. 26795 del 28/03/2006 e nr. 1345 del 24.4.2002. <br />In conclusione, senza entrare nel merito delle due pronunce della Suprema Corte, le intercettazioni di immagini mediante riprese video-registrate, rientrano in diverse categorie e sono soggette a differenti regolamentazioni.<br />a) Le videoregistrazioni effettuate in luogo pubblico da soggetti privati o pubblici (come quelle eseguite da impianti di videosorveglianza), vanno incluse nella categoria delle prove documentali che possono essere liberamente acquisite al processo, ex art. 234 c.p.p. <br />b) Le videoregistrazioni effettuate in luogo pubblico nell’ambito dell’attività di polizia giudiziaria sono un mezzo atipico di ricerca della prova e non necessitano di autorizzazione dell’autorità giudiziaria;<br />c) Le videoregistrazioni effettuate in luoghi riservati sono prove atipiche, disciplinate dall’art. 189 c.p.p. e possono essere effettuate solo sulla base di un provvedimento motivato dell’Autorità giudiziaria, sia esso il P.M. o il Giudice;<br />d) Le videoregistrazioni effettuate in luoghi di privata dimora (che non siano rivolte anche all’intercettazione delle comunicazioni) non sono consentite e quindi sono inutilizzabili nel processo.<br />La riforma Alfano, estendendo alla “intercettazione di immagini mediante riprese visive” la disciplina prevista per le intercettazioni telefoniche ed ambientali, non opera alcuna distinzione fra le differenti categorie di videoregistrazioni di immagini, come identificate dal diritto vivente, con la conseguenza paradossale che la polizia giudiziaria sarà costretta ad uno spropositato uso delle proprie risorse umane per compiere operazioni di pedinamento, di appostamento, di osservazione, che potrebbero molto più efficacemente (ed economicamente) essere compiute con le operazioni di videoregistrazione (anche queste sostanzialmente espunte dalla cassetta degli attrezzi degli inquirenti). <br />Non risulta chiaro, inoltre, se le riprese visive effettuate dagli impianti di videosorveglianza, che sono proliferati in modo esponenziale nell’ottica della sicurezza, potranno essere acquisite dagli inquirenti e fare ingresso nel processo penale, ovvero dovranno essere sottoposte alla disciplina di quasi completa inibizione stabilità, in via generale per le altre operazioni di intercettazione.<br /><br />9.3 Le intercettazioni ambientali.<br /><br />Il nuovo comma 2 dell’art. 266 c.p.p. rende più difficoltoso il ricorso alle intercettazioni fra presenti (le c.d. “intercettazioni ambientali”).<br />Come abbiamo visto nella disciplina vigente, le intercettazioni ambientali sono equiparate a quelle telefoniche, però possono essere effettuate in luoghi di privata dimora soltanto se vi è fondato motivo di ritenere che in tali luoghi si stia svolgendo l’attività criminosa.<br />La nuova disciplina elimina il riferimento ai luoghi dove si svolgono gli atti caratteristici della vita domestica, per cui le intercettazioni ambientali saranno consentite, a prescindere dal luogo dove vengono effettuate, solo se vi è fondato motivo di ritenere che in tale luogo si stia svolgendo l’attività criminosa.<br />La disciplina in discussione limita radicalmente l’uso delle intercettazioni ambientali, ha osservato al riguardo il CSM, nel parere citato, che “si tratta di una stretta che elimina con un tratto la quasi totalità delle intercettazioni ambientali, anche perché la dizione utilizzata dal legislatore - che ripercorre quella attualmente in vigore, ma limitata ai luoghi di privata dimora o equiparati - fa riferimento allo svolgimento “attuale” dell’attività criminosa, non al “potenziale” svolgimento della stessa; l’effettuazione dell’intercettazione dovrà, quindi, fondarsi, come attualmente avviene per le eccezionali occasioni di intercettazioni ambientali in luoghi di privata dimora, su elementi concreti che indichino che in quella specifica occasione si stia svolgendo l’attività criminosa.”<br />In conclusione, anche lo strumento delle intercettazioni ambientali è stato tolto dalla cassetta degli attrezzi degli inquirenti.<br /><br />10. Presupposti e forme del provvedimento con cui sono disposte le intercettazioni (nuovo testo dell’art. 267 c.p.p.).<br /><br />Come abbiamo visto, nella disciplina attuale il PM richiede al GIP l'autorizzazione a disporre l'intercettazione ed Il GIP, con decreto motivato, concede l'autorizzazione solo nel caso in cui l'intercettazione sia assolutamente indispensabile ai fini della prosecuzione dell'indagine e vi siano gravi indizi di reato.<br />La nuova disciplina rivoluzione sia i presupposti che le forme del provvedimento.<br /><br />10.1 Le forme del provvedimento di autorizzazione.<br /><br />La nuova normativa prevede che la richiesta di autorizzazione del P.M. debba essere sempre corredata dall’assenso scritto del Procuratore della Repubblica, ovvero del Procuratore aggiunto o del magistrato appositamente delegati.<br />In sostanza, è stata estesa alla materia della ricerca delle prove (mediante operazioni di intercettazione) la discussa normativa introdotta dall’art. 3 del decreto legislativo 20 febbraio 2006 n. 106, attuativo della riforma “Castelli” dell’ordinamento giudiziario che prevede che, per la richiesta di misure cautelari da parte del P.M. sia necessario l’assenso scritto del Procuratore della Repubblica, ovvero del procuratore aggiunto o del magistrato delegato. Quindi è stato fatto un ulteriore passo avanti nel processo di verticalizzazione degli uffici della Procura e di neutralizzazione e controllo dell’azione del singolo magistrato dell’ufficio del P.M.<br />Ma l’innovazione che si colloca fuori dalle righe del processo penale è il trasferimento della competenza ad autorizzare le intercettazioni dall’ufficio del Gip al Tribunale del capoluogo del distretto, che decide in composizione collegiale.<br />E’ di tutta evidenza che attribuire il potere autorizzatorio al tribunale distrettuale in formazione collegiale, determina gravi inconvenienti, come rilevato nel parere del CSM che ha osservato che: “per alcuni tribunali distrettuali di minori dimensioni la disciplina attuale delle incompatibilità, congiunta con l’attribuzione del potere autorizzatorio ad un organo collegiale diverso dal GIP, determinerebbe il pericoloso approssimarsi di quel limite di saturazione oltre il quale si verifica la materiale impossibilità di celebrare i processi. In proposito, va comunque segnalato che affidare ad un collegio la competenza per l’autorizzazione allo svolgimento delle intercettazioni, appare distonico con il vigente sistema nel quale è previsto che un giudice monocratico possa irrogare anche pene di particolare rilevanza. In secondo luogo la previsione di una competenza accentrata nel tribunale distrettuale (..) determinerebbe un sicuro maggiore aggravio dei carichi di lavoro negli uffici giudiziari presso i tribunali interessati. Tali grandi uffici già ora sono quelli in maggior difficoltà nel territorio, ed il fatto che non sia stata prevista alcuna misura organizzativa idonea ad attenuare gli effetti di immediato aumento delle loro competenze si ripercuoterà, inevitabilmente, sulla loro capacità di definizione ordinaria dei processi rallentando ulteriormente i tempi di esaurimento degli affari giudiziari. Inoltre sarebbe bene tenere presente che il trasferimento ed il ritiro degli atti necessari per l’autorizzazione all’intercettazione, oltre all’evidente aggravio di costi e di impegno, pone fortissimi interrogativi sulla tenuta della segretezza degli atti di indagine. È ben noto, infatti, che sia il fax che la posta elettronica - allo stato non assistita da necessarie garanzie di autenticità - non possono essere utilizzati per una siffatta circolazione di documenti, in quanto non sono ritenuti sicuri per la garanzia della segretezza degli atti e per la tutela della privacy delle persone.”<br />Tale incomprensibile aggravio dei carichi di lavoro viene ulteriormente appesantito dalla norma che dispone che: “il pubblico ministero, insieme alla richiesta di autorizzazione, trasmette al giudice il fascicolo con tutti gli atti di indagine fino a quel momento compiuti”. <br />In base a tale disposizione le Procure dovrebbero spedire materialmente al Tribunale distrettuale le richieste con il fascicolo contenente tutti gli atti d’indagine compiuti. <br />“Appare evidente – osserva il CSM - lo spreco di personale, di risorse e di energie che ciò comporterebbe. (..) Sembra poi evidente che tale sistema di trasmissione, non può che far accrescere i rischi di indebita conoscenza del contenuto degli atti di indagine con evidenti riflessi sulla salvaguardia della segretezza degli stessi.”<br /><br />10.2 I presupposti del provvedimento di autorizzazione<br /><br /> Per quanto riguarda le condizioni ed i requisiti del provvedimento autorizzatorio, la nuova disciplina prevede che l’autorizzazione è data con decreto motivato quando vi siano “evidenti gravi indizi di reato” (come prevede la disciplina attuale, quindi con una retromarcia rispetto agli “evidenti indizi di colpevolezza” del testo precedente), ma lo si potrà fare solo su utenze intestate all’indagato o a terzi che però potrebbero essere a conoscenza dei reati su cui si indaga. Le intercettazioni dovranno essere ‘assolutamente indispensabili’ per la prosecuzione delle indagini e sussisteranno specifiche ed inderogabili esigenze relative ai fatti per i quali si procede, fondate su elementi espressamente ed analiticamente indicati nel provvedimento, non limitati ai soli contenuti di conversazioni telefoniche intercettate nel medesimo procedimento e frutto di un’autonoma valutazione da parte del giudice. <br /><br />10.3 I procedimenti contro ignoti.<br /><br /> Per i procedimenti contro ignoti, i nuovi commi 1-ter ed 1-quater prevedono la richiesta della persona offesa per l’autorizzazione a disporre le intercettazioni sulle utenze o nei luoghi nella disponibilità della stessa, “al solo fine di identificare l’autore del reato”. Negli stessi procedimenti è sempre consentita l’acquisizione dei tabulati telefonici, al solo fine di identificare le persone presenti sul luogo del reato o nelle immediate vicinanze di esso. Ha osservato al riguardo, nel suo parere, il CSM che: “prevedere che si possa procedere alle intercettazioni solo su richiesta della persona offesa per qualsiasi procedimento contro ignoti (ad esempio, un omicidio o un tentativo di omicidio) costituisce un vincolo oggettivo che trasforma la doverosa attività d’indagine, affidata agli organi dello Stato, in una attività a discrezione della volontà soggettiva della persona offesa. Una simile conseguenza deve essere particolarmente segnalata per i possibili effetti irrazionali. È bene segnalare, inoltre, che nella maggior parte dei casi il procedimento, anche per fatti di grave allarme sociale, nasce normalmente contro ignoti per poi eventualmente dirigersi verso l’individuazione di uno o più soggetti, sicché, seguendo la modifica nei termini proposti, in tale fase iniziale non si dovrebbe mai poter procedere alle operazioni di cui all’art. 266 c.p.p. senza la preventiva richiesta della persona offesa, e, peraltro, alle condizioni e nei limitati confini previsti dalla formulazione proposta. Il che in molti casi si tradurrebbe nell’impossibilità di svolgere proficuamente le indagini per numerosi reati, anche gravi, in cui siano inizialmente ignoti gli autori del fatto. Deve, inoltre, notarsi che la volontà della persona offesa può risultare particolarmente condizionata o condizionabile nella sua autodeterminazione dai possibili riflessi dell’attività investigativa gravanti proprio sulla persona offesa. Ciò vale in particolar modo nei reati come l’estorsione o l’usura, per i quali vi è una sensibile esposizione della persona offesa alla quale non può essere affidata una scelta così rilevante in ordine alle doverose modalità di svolgimento dell’indagine.”<br /><br />10.4 La durata delle intercettazioni.<br /><br />La norma introdotta dal nuovo comma 3 dell’art. 267 c.p.p. configura una disciplina innovativa della durata delle operazioni di intercettazioni, introducendo un limite massimo di durata delle stesse di giorni 75 (30+15+15+15).<br />Ha osservato in proposito il CSM che i cambiamenti progettati determinerebbero un’alterazione radicale del significato e della funzione delle norme sulla durata delle intercettazioni. “Attualmente, infatti, la disciplina della durata e delle proroghe successive è diretta ad assicurare un costante controllo del giudice sul fatto che le intercettazioni non si protraggono al di là dei limiti temporali determinati dalla loro prescritta assoluta indispensabilità ai fini delle indagini. La nuova disciplina impone di porre termine alle intercettazioni, dopo un breve arco di tempo vale a dire trenta giorni prorogabili per altri trenta giorni in presenza di particolari requisiti, anche se esse siano ancora (o addirittura inizino ora ad essere) indispensabili ai fini delle indagini. Ora, vi è da osservare che per la gran parte dei reati per i quali si procede allo svolgimento proficuo delle indagini anche attraverso le intercettazioni, la fissazione di termini così limitati non corrisponde alla realtà e pone gli uffici di procura e le forze di polizia nella evidente difficoltà di svolgere seriamente il lavoro investigativo. La prospettiva che viene così aperta è di vanificare gli sforzi investigativi delle forze dell’ordine e d’indagine degli uffici di procura, a causa di un ostacolo formale non rapportato alla reale esigenza di assicurare completezza all’attività d’indagine funzionale al vaglio processuale delle prove.” <br /> <br />10.5 Il regime delle intercettazioni per i reati di criminalità organizzata e terrorismo.<br /><br />Un regime derogatorio speciale è previsto per i delitti di maggior allarme sociale di cui all’art. 51, comma 3 bis e 3 quater, c.p.p. Si tratta dei delitti previsti dagli art. 416, sesto comma (associazione per delinquere finalizzata alla tratta), 600 (riduzione o mantenimento in schiavitù), 601 (tratta di persone), 602 (acquisto e vendita di schiavi), 416 bis (associazione a delinquere di stampo mafioso) e 630 (sequestro di persona a scopo di estorsione) c.p.; dei delitti commessi avvalendosi delle condizioni di intimidazione previste dal predetto art. 416 bis, ovvero al fine di agevolare l’ attività delle associazioni previste dallo stesso articolo, nonché dai delitti dall’art. 74 del T.U. 309/90 (associazione per delinquere finalizzata al traffico di stupefacenti) e dall’art. 291-quater del D.P.R. 43/1973 (T.U. doganale), nonché dei delitti, consumati o tentati, con finalità di terrorismo.<br />Con riferimento a tali delitti, per autorizzare le operazioni di intercettazione, non è richiesto il requisito degli “evidenti indizi di colpevolezza”, né che le operazioni siano “assolutamente indispensabili ai fini della prosecuzione delle indagini”, essendo richiesto soltanto che vi siano “sufficienti indizi di reato” e che l’autorizzazione sia “necessaria” per lo svolgimento delle indagini.<br />Anche la disciplina del termine viene derogata, in quanto è previsto che il termine per tali operazioni sia di quaranta giorni, prorogabili per periodi successivi di 20 giorni per tutta la durata delle indagini preliminari.<br />Inoltre è previsto che le intercettazioni ambientali possono essere effettuate anche se non vi è motivo di ritenere che nei luoghi ove sono disposte si stia svolgendo l’attività criminosa.<br />Nel campo dei reati di criminalità organizzate e di terrorismo, la nuova disciplina apparentemente sembra ricalcare la normativa attuale, che consente il ricorso allo strumento delle intercettazioni con limitazioni non troppo stringenti.<br />In realtà è stata introdotta una profonda restrizione agli strumenti investigativi esistenti, in quanto strumenti di indagine largamente diffusi e di grande utilità per le investigazioni, come l’acquisizione dei tabulati telefonici e l’effettuazione di videoregistrazioni, sono stati sottratti alla disponibilità della polizia e del magistrato inquirente ed infilati nel calderone della procedura aggravata per l’autorizzazione delle intercettazioni, con una conseguente perdita di rapidità ed efficienza dell’investigazione penale.<br />Inoltre la enorme differenziazione dei due regimi di autorizzazione, quello ordinario (in cui le intercettazioni sono quasi impossibili) e quello relativo ai delitti di criminalità organizzata (che consentirebbe un ricorso più esteso alle operazioni di intercettazione), è destinato a rendere meno incisiva l’azione di contrasto nei confronti della criminalità organizzata. Infatti, nella generalità dei casi, i delitti riconducibili alla criminalità organizzata, si presentano come delitti comuni. Una rapina è una rapina, un omicidio è un omicidio e, come tali, non rientrano nei delitti di cui all’art. 51, comma 3 bis c.p.p. Solo, all’esito delle investigazioni penali è possibile accertare se tali delitti rientrano nelle attività delle associazioni per delinquere di tipo mafioso. Conseguentemente se si disarma l’azione investigativa nei confronti dei delitti comuni, si diminuisce l’efficacia dell’azione di contrasto nei confronti della criminalità organizzata.<br /><br />11. Esecuzione delle operazioni di intercettazione (nuovo testo dell’art. 268).<br /><br />La nuova normativa sostanzialmente rimodula la disciplina, in tema di esecuzione delle operazioni di intercettazione portata dall’art. 268. Per quanto riguarda il verbale delle operazioni, la novella estende il contenuto del verbale, senza apportare sostanziali variazioni, in quanto prevede una serie di adempimenti per la compilazione del verbale (indicazione degli estremi del decreto, annotazione del giorno e dell’ora di inizio e di cessazione delle registrazioni, la trascrizione sommaria del contenuto, etc) che attualmente sono già previsti dall’art. 8, comma 1 della disposizioni di attuazione del codice di procedura penale, che, conseguentemente, viene abrogato.<br /><br /><br />12. L’utilizzazione in altri procedimenti (nuovo testo dell’art. 270) <br /><br />La riforma riscrive l’art. 270 c.p.p. riducendo in modo significativo i margini di utilizzabilità di intercettazioni in procedimenti diversi da quello in cui sono state autorizzate. Mentre la disciplina attuale consente l’utilizzazione delle intercettazioni in altri procedimenti per l’accertamento di delitti per i quali è obbligatorio l’arresto in flagranza, il nuovo testo dell’art. 270 consente l’utilizzazione dei risultati delle intercettazioni solo quando esse risultino indispensabili per l’accertamento dei delitti di cui agli art. 51, commi 3 bis e 3-quater e 407, comma 2, lett. a) c.p.p., a condizione che esse non siano state dichiarate inutilizzabili nel procedimento nel quale sono state disposte.<br />Da un punto di vista pratico, per comprendere la differenza fra la vecchia e la nuova disciplina è opportuno richiamare il parere del CSM, che ha osservato: “Tale riduzione non è condivisibile. A titolo esemplificativo, non appare adeguato, in ragione del particolare spessore dello specifico interesse protetto, impedire l’utilizzo di intercettazioni provenienti da altro procedimento quando le stesse appaiano indispensabili per l’accertamento di delitti contro la personalità dello Stato, di cui agli artt. 241 ss. c.p.p., “per i quali è stabilita la pena della reclusione non inferiore nel minimo a cinque anni o nel massimo a dieci anni”, ovvero di delitti contro l’incolumità pubblica, diversi dalla strage, “per i quali è stabilita la pena della reclusione non inferiore nel minimo a tre anni o nel massimo a dieci anni”. Tali ultimi, peraltro, comprendono condotte criminose di gravità assoluta (epidemia, avvelenamento di acque o di sostanze alimentari, adulterazione o contraffazione di sostanze alimentari) spesso correlate (come nel caso dell’incendio) a fenomeni estorsivi, ovvero collegate, soprattutto in determinati ambiti territoriali, ad attività illecite della criminalità organizzata. Sorprende, poi, che il d.d.l. non consenta la possibilità del ricorso ad intercettazioni provenienti da altro procedimento per l’accertamento di reati, assai frequenti nella prassi, avvertiti in modo particolarmente odioso dall’opinione pubblica, così riducendo rispetto ad essi, in maniera incisiva, la possibilità di configurare un numero assai elevato di illeciti. Ci si riferisce, in particolare, ai delitti di rapina e di estorsione non aggravati (cioè diversi dalle fattispecie di cui agli artt. 628, comma 3, e 629, comma 2, c.p.p.), nonché di produzione e traffico illecito di sostanze stupefacenti previsto dall’art. 73 del D.P.R. n. 309 del 1990, essendo per il d.d.l. consentita l’applicazione dell’art. 270 c.p.p. alle sole figure aggravate di cui all’art. 80, comma 2 D.P.R. 309/90.<br /><br />13. L’astensione del giudice e la sostituzione del Pubblico Ministero.<br /><br />Il primo comma modifica l’art. 36 c.p.p.che elenca i motivi di astensione obbligatoria del giudice che si trovi in condizioni di ridotta imparzialità, aggiungendo al comma 1 una nuova lettera, h-bis) che prescrive l’obbligo di astensione del giudice nel caso che egli abbia “pubblicamente rilasciato dichiarazioni concernenti il procedimento affidatogli”. Il secondo comma modifica l’art. 53, comma 2, c.p.p., con riferimento ai casi in cui è possibile sostituire il P.M. senza il suo consenso. Al riguardo, occorre ricordare che l’art. 53, comma 2, c.p.p. disciplina i casi di sostituzione del P.M., prevedendo che il capo dell’ufficio provvede alla sostituzione del magistrato nel caso di grave impedimento personale, di rilevanti esigenze di servizio e per motivi di opportunità nel caso ricorrano talune delle condizioni previste dall’art. 36 c.p.p. In tutti gli altri casi è necessario il consenso del P.M. per la sua sostituzione.<br />La nuova disposizione prevede che il capo dell’ufficio giudiziario dovrà sostituire il P.M. che:<br />1) ha rilasciato pubblicamente dichiarazioni relative al procedimento affidatogli;<br />2) risulta iscritto nel registro degli indagati per il reato di illecita rivelazione di segreti inerenti ad un procedimento penale di cui è titolare, previsto dall’art. 379 bis c.p. (che viene integralmente riformulato dal comma 26, lett. a) del d.d.l. Alfano. <br />Al riguardo è opportuno richiamare il parere del CSM, che ha osservato “La previsione di cui all’art. 1, comma 1, seppure ispirata alla condivisibile ratio di tutelare l’immagine di imparzialità del giudice, che non deve esprimere in sede impropria dichiarazioni su procedimenti a lui affidati, potenzialmente idonee a minare la credibilità stessa della funzione svolta, non appare tuttavia in grado di soddisfare le finalità cui è preposta. Invero, la norma è del tutto generica e si presta, perciò, ad agevoli strumentalizzazioni; sarebbe opportuno, quantomeno, specificare la portata che tali dichiarazioni devono avere per poter realmente determinare la lesione dei beni tutelabili esclusivamente con l’astensione obbligatoria del giudice designato. In tale prospettiva appare utile richiamare la tecnica legislativa utilizzata per l’individuazione dell’illecito disciplinare di cui all’art.2, comma 1 lett. v), D.Lgs. 109/20064. Allo stesso modo non appare condivisibile la scelta legislativa, esplicitata all’art. 1, comma 2, di includere nelle ipotesi di sostituzione dei pubblici ministeri la causa di astensione obbligatoria appena sopra illustrata. A conclusioni analoghe deve giungersi anche per quanto riguarda le altre ipotesi di sostituzione del pubblico ministero introdotte dal medesimo comma 2 in esame. Invero, la previsione che il pubblico ministero possa essere sostituito senza il suo consenso, allorquando egli risulti iscritto nel registro degli indagati per il reato di cui all’art. 379 bis c.p. “in relazione ad atti del procedimento assegnatogli”, si presta a pericolose strumentalizzazioni, giacché attraverso denunce pretestuose si consente alle parti private ovvero a terzi estranei al procedimento di incidere sulla designazione del pubblico ministero incaricato delle indagini. (..)Infine, appare in contrasto con la previsione di cui all’art. 5, comma 2, D.Lgs. 106/20065 l’introdotta possibilità di sostituire il magistrato assegnatario ed il capo dell’ufficio allorquando abbiano “rilasciato dichiarazioni pubbliche in merito ad un procedimento pendente presso il loro ufficio”.<br />In conclusione nessun magistrato, nemmeno il capo della Procura a cui il decreto Castelli, aveva riservato la facoltà di fornire informazioni sui procedimenti in corso, può aprire bocca ed informare l’opinione pubblica delle iniziative assunte rispetto ai procedimenti penali in corso. <br />A questo punto sorge spontanea la domanda, questa singolare disciplina è rivolta a tacitare i magistrati o ad accecare l’opinione pubblica che non deve sapere nulla, non deve essere informata dei procedimenti in corso, specialmente se relativi a vicende di qualche interesse pubblico?<br /><br />14. Il regime di pubblicazione degli atti.<br /><br />I commi da 4 ad 8 modificano gli art. 114 e 115 c.p.p. relativi al divieto di pubblicazione di atti d’indagine.<br />Il comma 5 introduce nell’art. 114 c.p.p. i nuovi commi 2-bis e 2-ter, che introducono una disciplina speciale rispettivamente per gli atti e documenti relativi a conversazioni o comunicazioni e per le richieste di misure cautelari e le relative ordinanze.<br />Mentre il comma 4 consente la pubblicazione per riassunto degli atti d’istruzione che non siano più coperti da segreto, il comma 5 introduce un divieto assoluto di pubblicazione, anche parziale, per riassunto o nel contenuto, della documentazione e di tutti gli atti relativi a conversazioni, anche telefoniche, o a flussi di comunicazioni informatiche o telematiche ovvero ai dati riguardanti il traffico telefonico o telematico fino alla conclusione delle indagini preliminari, ovvero fino al termine dell’udienza preliminare.<br />Per quanto riguarda le misure cautelari, il nuovo comma 2 ter introdotto nell’art. 114 c.p.p., consente la pubblicazione, nel contenuto, delle ordinanze dopo che l’indagato o il suo avvocato abbiano avuto conoscenza del provvedimento giudiziario, fatta eccezione per le parti delle ordinanze che riproducono la documentazione o gli atti relativi alle intercettazioni.<br />Al riguardo il CSM nel suo parere così si esprime: “la soluzione delineata dal ddl appare problematica, comportando l’equiparazione del regime relativo agli atti coperti da segreto a quello degli atti non più coperti da segreto: una parte significativa della fase delle indagini preliminari risulterebbe sottoposta ad un regime di indifferenziato divieto di pubblicazione degli atti, anche per riassunto, con evidente compressione dei valori riconducibili all’art. 21 Cost.”<br />Una norma veramente singolare è quella del comma 6, che interviene sull’art. 114 c.p.p. inserendovi un nuovo comma (6-ter) che vieta la pubblicazione e la diffusione dei nomi e delle immagini dei magistrati relativamente ai processi e procedimenti penali loro affidati. Il divieto relativo alle immagini (n.b. solo alle immagini) non si applica nel caso di riprese audiovisive di un dibattimento, autorizzate con il consenso delle parti e quando, ai fini del diritto di cronaca, la rappresentazione dell’avvenimento.<br />Il comma successivo sostituisce il comma 7 dell’art. 114 c.p.p., prevedendo il divieto di pubblicazione “in ogni caso”(e quindi anche dopo la chiusura del dibattimento), degli atti e dei contenuti relativi a conversazioni intercettate di cui sia stata ordinata la distruzione, ai sensi degli artt. 269 e 271 c.p.p. Il secondo periodo del nuovo comma 7 dispone il divieto di pubblicazione, anche parziale, per riassunto o nel contenuto delle intercettazioni di conversazioni riguardanti circostanze e persone estranee alle indagini, di cui sia stata disposta l’espunzione, ai sensi del nuovo art. 268, comma 7 bis c.p.p.<br />Il comma 8 modifica l’art. 115 c.p.p. in materia di illecito disciplinare costituito dalla violazione del divieto di pubblicazione di atti del processo penale, rendendo più stringente il controllo disciplinare. In particolare prevede che l’organo disciplinare, entro 30 giorni dalla comunicazione dell’iscrizione del soggetto nel registro degli indagati, sentito il presunto autore del fatto, ne deve disporre la sospensione dal servizio o dall’esercizio della professione fino a tre mesi.<br />In proposito il CSM si è così espresso:<br />“Non risulta condivisibile la previsione introdotta dalla norma, che modifica in maniera incisiva il secondo comma dell’art. 115 c.p.p. Invero l’onere informativo, divenuto di pertinenza esclusiva del Procuratore della Repubblica, viene necessariamente anticipato già al momento dell’iscrizione nel registro degli indagati, prestandosi a facili strumentalizzazioni e ponendo a rischio la stessa segretezza dell’indagine.”<br /><br />15. Le sanzioni penali per giornalisti ed editori.<br /><br />E ora veniamo alle novità per giornalisti ed editori, che hanno già annunciato uno sciopero generale di protesta il 9 luglio. Le intercettazioni non potranno essere pubblicate sui giornali fino alla fine delle indagini e gli atti delle inchieste potranno essere solo riassunti. Gli editori che si ostineranno a pubblicare materiale scottante rischiano una multa fino a 450.000 euro, mentre i giornalisti che si macchieranno di tale misfatto saranno punibili con un mese di carcere e 10.000 euro di multa. Magra consolazione, solo ai giornalisti sarà permesso, in futuro, di fare riprese o registrazioni audio di nascosto.<br />Ciliegina sulla torta, le nuove regole si applicano ai processi in corso, in modo che qualcuno finalmente possa essere libero da fastidiosi impicci giudiziari e possa dedicarsi con calma alle sorti di un Paese che meriterebbe qualcosa di meglio dalla propria classe dirigente. Il Governo esulta perché finalmente sarà garantita la privacy di tutti i cittadini. La sensazione, invece, è che adesso siano solo i criminali a tirare un sospiro di sollievo e dormir sogni tranquilli, perché dubito che a qualcuno interessi ascoltare i vaneggiamenti telefonici della gente comune con amici e parenti. Il problema vero è che così si minano seriamente le basi della Giustizia italiana, già abbastanza sofferente, e si lasciano impuniti i delinquenti.<br />Con la nuova legge, tanto per fare un esempio, non avremmo mai saputo del crack Parmalat, della casa regalata a Scajola, di Calciopoli, delle violenze al G8, e di altri fatti grigi della recente cronaca nazionale.<br />Inoltre, non si potranno più effettuare riprese o registrazioni con strumentazioni (videocamere.ì, registratori) nascoste (è il c.d. “emendamento D’Addario”) se non si sia giornalisti o pubblicisti. Quindi, trasmissione come Report o Le Iene, basate sul lavoro di free lance, non saranno tecnicamente più possibili.<br /><br /><br />16. I cani da guardia della democrazia sdentati e imbavagliati.<br /><br />In tema di libertà di informazione dei media, deve essere richiamata la Raccomandazione Rec (2003) 13 del Comitato dei ministri del Consiglio d'Europa, sulla diffusione d'informazioni attraverso i media in relazione ai procedimenti penali (adottata dal Consiglio dei ministri il 10 luglio 2003). Tale raccomandazione si basa, tra l'altro, sui seguenti presupposti: - i media hanno il diritto d'informare il pubblico alla luce del diritto dello stesso di ricevere informazioni, incluse informazioni su questioni d'interesse pubblico, in applicazione dell'articolo 10 della Convenzione, e che hanno il dovere professionale di farlo;<br />- i diritti alla presunzione d'innocenza, ad un processo equo ed al rispetto della vita privata e familiare, garantiti dagli articoli 6 e 8 della Convenzione, costituiscono esigenze fondamentali che devono essere rispettate in ogni società democratica;<br />- è importante che i media realizzino reportage sui procedimenti penali per informare il pubblico, r rendere visibile la funzione dissuasiva del diritto penale e consentire al pubblico di esercitare un diritto di controllo sul funzionamento del sistema giudiziario penale.<br />Tra i principi elencati dalla Raccomandazione in esame si ricordano i seguenti.<br />Principio 1 - Informazione del pubblico da parte dei media: il pubblico deve poter ricevere informazioni sulle attività delle autorità giudiziarie e dei servizi di polizia attraverso i media. I giornalisti devono di conseguenza poter liberamente riferire ed effettuare commenti sul funzionamento del sistema giudiziario penale, con salvezza delle sole limitazioni previste in applicazione dei principi sottoriportati. (…)<br />Principio 6 - Informazione regolare durante i procedimenti penali: nell'ambito dei procedimenti penali d'interesse pubblico o di altri procedimenti penali che richiamano in particolar modo l'attenzione del pubblico, le autorità giudiziarie ed i servizi di polizia dovrebbero informare i media dei loro atti essenziali, purché ciò non rechi pregiudizio al segreto istruttorie ed alle indagini di polizia e non ritardi o intralci i risultati dei procedimenti. Nel caso dei procedimenti penali che si protraggono per un lungo periodo, l'informazione dovrebbe essere fornita con regolarità.<br />Con particolare riferimento alla materia della pubblicazione di intercettazioni telefoniche, deve essere ricordata la sentenza della Corte europea dei diritti dell'uomo del 7 giugno 2007 nel caso Dupuis ed altri contro la Francia (ricorso n. 1914/02).<br />Con tale pronuncia, la Corte ha affrontato il caso di due giornalisti francesi e della loro casa editrice ai quali erano state inflitte sanzioni pecuniarie, in quanto riconosciuti colpevoli del reato di concorso in violazione del segreto istruttorio o del segreto professionale ai sensi del codice penale francese. Essi avevano infatti pubblicato un libro contenente "facsimili di intercettazioni" e dichiarazioni rese dinanzi al magistrato istruttore da persone sottoposte ad istruttoria penale con riferimento ad una vicenda avente ad oggetto un sistema di intercettazioni illegali, che aveva destato vasta eco nell'opinione pubblica francese.<br />Nel valutare se l'ingerenza nella libertà d'espressione dei giornalisti (rappresentata dalla sanzione penale loro inflitta) fosse "necessaria in una società democratica" (come richiesto dal già ricordato art. 10 della Convenzione europea dei diritti dell'uomo), la Corte di Strasburgo ha affermato, in linea di principio, che non è sostenibile che le questioni che sono sottoposte alla cognizione dei tribunali non possano, precedentemente o contemporaneamente, dar luogo a discussione in altre sedi, che siano le riviste specializzate, la stampa o l'opinione pubblica in generale. Alla funzione dei media, consistente nella comunicazione di dette informazioni e idee, si aggiunge il diritto del pubblico ad essere informato. Tuttavia, è necessario prendere in considerazione il diritto di ognuno a beneficiare di un processo equo quale quello garantito dall'art. 6, comma 1, della Convenzione europea dei diritti dell'uomo, che, in materia penale, comprende il diritto ad un giudice imparziale. Con particolare riferimento al caso di specie, la Corte ha osservato che l'opera per cui era causa concerneva un dibattito che rivestiva un considerevole interesse pubblico. Essa apportava un contributo a quello che può essere definito un affare di Stato, che interessava l'opinione pubblica, e forniva alcune informazioni e riflessioni, trattandosi di personalità che erano state fatte oggetto di intercettazioni telefoniche illegali, delle situazioni in cui tali intercettazioni erano state effettuate e di coloro che ne erano stati i mandanti. Secondo la Corte, la lista delle duemila persone intercettate comprendeva i nomi di numerose personalità per lo meno mediatiche o mediatizzate. La Corte ha ricordato che l'art. 10, comma 2, della Convenzione non lascia spazio a restrizioni della libertà d'espressione nell'ambito del dibattito politico o delle questioni di interesse generale. Inoltre, i margini di critica ammissibili sono maggiori nei confronti di un uomo politico, in tale veste considerato, che di un privato cittadino: a differenza del secondo, il primo si espone inevitabilmente e consapevolmente ad un attento scrutinio di tutto quanto egli faccia, sia da parte dei giornalisti che da parte della generalità dei cittadini; conseguentemente, egli deve mostrare una maggiore tolleranza.<br />La Corte ha dichiarato che in una società democratica è necessario valutare con la più grande prudenza la necessità di punire per concorso nella violazione del segreto istruttorio o del segreto professionale dei giornalisti che prendono parte ad un dibattito pubblico di grande importanza, esercitando così la loro funzione di "cani da guardia" della democrazia. L'art. 10 della Convenzione tutela il diritto dei giornalisti a comunicare informazioni su questioni d'interesse generale quando essi si esprimono in buona fede, sulla base di fatti esatti e forniscono informazioni "affidabili e precise" nel rispetto dell'etica giornalistica. <br />La questione della libertà di stampa in relazione alla divulgazione di notizie tratte da procedimenti penali è stata oggetto di un’altra recente pronuncia da parte della Corte Europea dei Diritti dell’uomo nel caso Eerikäinen ed altri contro la Finlandia (ricorso n. 3514/02, Sentenza del 10 febbraio 2009).<br />In questo caso la Corte ha ritenuto non necessaria in una società democratica la sanzione inflitta a dei giornalisti per un articolo su un personaggio non pubblico coinvolto in un procedimento penale per evasione fiscale e truffa a enti previdenziali pubblici. Secondo la Corte, il fatto che l'articolo in questione avesse ad oggetto l'abuso di fondi pubblici costituiva una questione di pubblico interesse, anche in considerazione della gravità del caso. Dal punto di vista del diritto del pubblico ad essere informato su questioni di pubblico interesse, e dunque dal punto di vista della stampa, il bisogno di incoraggiare il dibattito pubblico su tale questione era fondato.<br />I media, in pratica, non potranno più dar conto delle inchieste penali in corso, soprattutto non potranno dire nulla circa i risultati emersi da eventuali operazioni di intercettazione di comunicazioni (se non – eventualmente – con anni di ritardo) ed i magistrati che conducono quelle indagini dovranno – formalmente – scomparire, diventare inesistenti. Neppure il loro nome dovrà essere pronunziato, né tanto meno pubblicata un’immagine (E’ la giusta vendetta nei confronti di personaggi come Falcone e Borsellino, di cui oggi non conosceremmo neanche il nome, se si fosse applicata la legge Alfano fin da principio). <br /><br />17. Osservazioni conclusive.<br /><br />Qualche anno fa avevo in classe una ragazza – Chiara, si chiamava – che amava in maniera viscerale e onnivora l’arte. La pittura, per l’esattezza. Come si fa normalmente davanti ad una passione divorante, la ragazza era totalmente presa dalla sua. Comprava e leggeva libri d’arte, monografie su Picasso, Degas, Kandinsky, Klee, De Chirico, Matisse, Van Gogh. E provava anche a disegnare, dipingere. Si era attrezzata con tavolozze, pennarelli, colore a tempera, ad olio, matite, matitine, tele, treppiedi… Insomma, un amore quasi illimitato. Ed illimitabile, se non ci fossero stati di mezzo i suoi genitori, due insegnanti pure loro. Papà e mamma, entrambi docenti di filosofia, ma con fin troppo senso pratico tanto da aver programmato, per la figlia, un cursus studiorum scientifico (infatti eravamo in un Liceo Scientifico), il più opportuno per la ricerca di un lavoro futuro. La ragazza si disperava, litigava, ma alla fine – essendo anche di temperamento mansueto e per nulla ribelle – cedeva. Veniva solo da me, suo insegnante, per lamentarsi, benché sempre in modo molto discreto, tenero persino. Io, da parte mia, in occasione dei colloqui, tentavo di dissuadere quei due intemerati dal comportarsi così con la figlia, ma anzi di assecondarla. Ma la loro risposta era sempre la stessa: “Con l’arte non si mangia! E’ per il suo bene che facciamo questa cosa, come dire?, impopolare. Un giorno ci ringrazierà.” Ogni volta la stessa cosa, la stessa litania.” Ed, in questo contesto, si spiegavano anche le sparizioni delle cose della ragazza, un po’ come oggi la sottrazione degli strumenti utili ai giudici per indagare. Chiara non trovava un libro sull’arte bizantina (ricordate la legge rogatorie internazionali?), domani la monografia su Bracque (screditare i pentiti), poi scomparvero tavolozza e pennelli (la separazione delle carriere), poi misero in soffitta i colori, le guide, le tele (lodo Alfano, legittimo impedimento, intercettazioni…). Fecero tutto a poco a poco. E sempre il bene della ragazza (del paese e della sua privacy). Al momento della scelta della facoltà universitaria, mentre la ragazza voleva iscriversi all’Accademia delle Belle Arti (quella di Venezia è rinomatissima, com’è noto), i genitori imposero Medicina (la maggioranza governa). E’ sempre comodo avere un medico in famiglia (se la famiglia, invece, è mafiosa, è più comodo avere un avvocato…). <br />Qualche tempo dopo incontri Chiara sul treno che da Padova porta a Venezia. Io lavoravo in Regione, lei frequentava l’università. Era carica di cartelle giganti. L’aveva spuntata: faceva Belle Arti. Aveva provato Medicina, ma non era affar suo. In tre anni, era riuscita a dare solo un paio di esami, non capiva le lezioni, si annoiava a morte e non riusciva a stare su un libro per più di un quarto d’ora. Ma, soprattutto, stava deperendo a vista d’occhio, sfiorando l’esaurimento nervoso Non viveva più. Si era mollata con Federico, il moroso, aveva lasciato nuoto, non usciva quasi più con gli amici (tutti vecchi superstiti dei tempi del Liceo, di nuovi neanche uno). Un disastro, insomma. E di fronte a questo stato anche i genitori dovettero arrendersi. Solo che le hanno fatto perdere quasi tre anni di studio, di carriera. Ma, alla fine, a Chiara è andata pure bene. Ha perso, sì, tre anni di università, ma chissà quanto tempo ne ha guadagnato in termini di vita, vitalità e creatività. Si potrà dire lo stesso dell’Italia?ALTRiTALIAhttp://www.blogger.com/profile/09128053771899935682noreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-4298065194492417554.post-66359309531017441752010-05-24T23:02:00.000+02:002010-05-24T23:08:43.986+02:00DE IURE CONDITO<a onblur="try {parent.deselectBloggerImageGracefully();} catch(e) {}" href="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEhWplLBzDv8YIv8U5ksMWhyxArk84_p-Y7sv3Tii_YhUe8gV4kYp5zo2OtohJgGU2GMnKeD1YMubL4AH8-IhDcLhshh5fhoqPYGR-s6Kt8UOma3x5Y20X_7YsXWoP8p2Cc-g29ofIBtXuWU/s1600/libert%C3%A0+stampa.jpg"><img style="float:left; margin:0 10px 10px 0;cursor:pointer; cursor:hand;width: 226px; height: 320px;" src="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEhWplLBzDv8YIv8U5ksMWhyxArk84_p-Y7sv3Tii_YhUe8gV4kYp5zo2OtohJgGU2GMnKeD1YMubL4AH8-IhDcLhshh5fhoqPYGR-s6Kt8UOma3x5Y20X_7YsXWoP8p2Cc-g29ofIBtXuWU/s320/libert%C3%A0+stampa.jpg" border="0" alt=""id="BLOGGER_PHOTO_ID_5474945074720940386" /></a><br /><br />Come la rana messa a cuocere a fuoco lento sul fornello. La sapete la storia?<br /><br />La storia della rana, messa a cuocere a fuoco lento sul fornello, e incapace di uscire dalla pentola finché muore cotta, riassume bene lo spirito di questo convegno sulla libertà di stampa; e anche di questo racconto, De iure condito, di Giuseppe Tramontana, che lo accompagna.<br /><br />La morale della rana, che si accorge del pericolo, ma ormai non ha più le energie per fare un balzo e scappare, ma soprattutto dell'uomo che l'ha fatta bollire lentamente, senza dare nell’occhio è la triste conclusione a cui arriva il commissario Atenagora Merli alla fine dell'apologo di Giuseppe Tramontana: si tratta di un piccolo giallo poliziesco, in cui i buoni – il commissario, il poliziotto, il bambino, il procuratore – alla fine vengono sconfitti non tanto dal mostro Italo Fulvio, ma soprattutto dalle leggi, dalle norme anti-intercettazione, dalle lungaggini dei tribunali; dal principio che è l’autorità a fare la legge, non la verità.<br /><br />Giuseppe Tramontana non è nuovo a prove di narrativa: proprio a Cadoneghe è stato presentato nel dicembre 2009 il romanzo La storia obliqua, edito da Kimerik; i racconti brevi o lunghi di Tramontana hanno le fattezze di conte philosophique, e attingono la loro verosimiglianza da un lavoro di precisa documentazione sulle grandi questioni del nostro paese: la giustizia, la politica degli affari, la mafia, l'informazione; senza dimenticare il calcio, sia nazionale che internazionale, che può essere usato per parlare di sistemi economici e politici: “le conseguenze delle migrazioni, la persistenza della corruzione e l'ascesa di nuovi potenti oligarchi come il presidente del Milan” (F.Foer, Come il calcio spiega il mondo, Milano, 2007, p.13-14).<br /><br />Alternando prove di narrativa a saggi di storia medioevale e contemporanea, Giuseppe Tramontana si schiera per l'impegno civile e per la libertà di informazione; con lo stesso spirito e la stessa passione lavora come docente di storia e filosofia presso il Liceo Scientifico “Curiel” di Padova. Ed è grazie allo spirito di iniziativa suo e degli amici del sito web “Altritalia” e dell’Associazione “Giuristi Democratici” di Padova che il Comune di Cadoneghe ospita questo convegno sulla libertà di stampa.<br /><br />Inizialmente l'occasione per ragionare sull'informazione in Italia doveva essere la celebrazione del 3 maggio, proclamata dall'Unesco “Giornata Mondiale della libertà di stampa”; poi, come al solito, i fatti di cronaca hanno sorpassato e reso drammatico questo appuntamento: se è vero che ad oggi sono ormai quarantamila le adesioni all'appello contro la legge sulle intercettazioni promosso da Stefano Rodotà e da altri giuristi. E' per ragionare e protestare contro questa legge bavaglio, e contro una vera e propria strategia politica che sta imponendo il silenzio stampa, che il Comune di Cadoneghe organizza e appoggia questa iniziativa. Per non fare la fine della rana bollita, fregata dal metodo della lenta cottura.<br /><br />Così siamo noi, nel nostro paese. Hanno cambiato il senso di alcune parole e hanno spacciato il privilegio per libertà. Hanno spacciato l’egoismo per iniziativa e l’arbitrio per privacy. <br /><br />Giovanni Petrina (Assessore alla Cultura al Comune di Cadoneghe, PD)<br /><br />DE IURE CONDITO<br />Un racconto sullo stato della giustizia prossimo venturo.<br />di G. Tramontana<br /><br />Il commissario Atenagora Merli aprì la porta senza bussare.<br />Buongiorno capitano, disse il poliziotto seduto dietro la scrivania.<br />Buongiorno, Piero, lo salutò il commissario scorbutico, novità?<br />Sì, una telefonata.<br />Che dice, ‘sta telefonata?<br />Che un bambino è sparito.<br />Sparito in che senso?<br />Sparito che non è tornato a casa dopo la scuola.<br />Che scuola?<br />Elementare, commissà, la Pascoli. <br />E che cazzo? Quanti hanno ci ha?<br />La Pascoli?<br />Il bambino, Piè, che età ci ha?<br />Otto anni, terza elementare. Ha telefonato la madre. Preoccupata. Lo aspettava per l’una e mezza, le due al massimo e invece niente. Come volatilizzato. <br />Il commissario gettò uno sguardo all’orologio crocifisso alla parete: le sette e trentadue.<br />Minchia, tardi è, sibilò. <br />Tardissimo, disse Piero. Che facciamo? <br />Il commissario sbuffò. Alle otto e mezzo c’è la partita, disse, ma ora andiamo dalla madre del bambino. Come si chiama?<br />Il bambino, Andrea. Andrea Picello. Abitano in via Monza. Al 17.<br />Diciassette, che culo, fece il commissario. Speriamo di finirla bene. <br />Speriamo, disse Piero. <br />Anche per la partita, sibilò il commissario. <br />Anche per la partita. <br />La partita che non vedremo.<br />Già, che non vedremo.<br /><br />Via Monza era in periferia. Periferia nord. Cupa, squallida. Dietro la stazione dei treni. Un tempo doveva essere una zona residenziale, poi deve essersi gradatamente adeguata all’avanzata del progresso. Palazzi di tre-quattro piani, fiori sui davanzali, bici accatastate davanti ai portoni. Qualche aiuola spelacchiata. Qualcuno con in mano un guinzaglio lungo come la fame a cui stava attaccato, all’altro capo del mondo, un cane annusatore. La macchina del commissario parcheggiò al numero 15.<br />Commissario, è al diciassette, fece Piero. <br />Lo so, non c’è posto più avanti, fece il commissario.<br />Scesero stanchi. Piero suonò al campanello Picello. <br />Chi è, chiese una voce di donna. <br />Polizia, rispose lui. <br />Il portone si aprì con un clic. <br />Terzo piano, li rincorse la voce al citofono.<br />La casa era silenziosa. Si poteva sentire il tic-tac dell’orologio alla parete. La donna li attendeva sul pianerottolo. Dietro di lei, un uomo, il marito. Il commissario e il poliziotto entrarono, si presentarono.<br />Prego siedano, disse la donna, con la faccia preoccupata e gli occhi arsi dalle lacrime. Si sedettero al tavolo della cucina. <br />Grazie per essere venuti, disse l’uomo all’impiedi. <br />Il commissario fece un cenno con capo: dovere. Non si è fatto vivo nessuno?, chiese di botto. Nessuno, fece la donna con voce tremolante. <br />Ha telefonato ai compagni?, chiese ancora il commissario.<br />Tutti, disse la donna. Nessuno l’ha visto dopo la scuola. Nessuno. <br />I quattro si guardarono. Piero guardò l’orologio al polso. Le otto e trentaquattro. Il commissario non sapeva che fare, che dire, che chiedere. <br />Commissario, non gli hanno fatto del male, vero?, chiese la donna.<br /> Speriamo di no, disse lui. <br />Frequenta qualche sala giochi, qualche parco?, chiese Piero.<br /> No. Che noi sappiano no, si inserì l’uomo. <br />Ha un cellulare?, chiese il commissario. <br />Così piccolo!, esclamò la donna. No che non ha un cellulare. Non siamo i tipi che mettono in mano un telefonino al figlio di otto anni. <br />Il commissario annuì.<br /> I due poliziotti si rimisero in posizione eretta. <br />Commissario, me lo trovate, vero?, li supplicò la madre. <br />Ce la stiamo mettendo tutta, disse lui. <br />Me lo promette, insistette lei.<br />Glielo prometto.<br />Uscirono in silenzio. Scesero ascoltando il rimbombo dei propri passi nella tromba delle scale. Come storditi. Salirono in macchina. Piero, appena dentro l’abitacolo, accese la radio. Siamo al ventiseiesimo e il punteggio è ancora sullo zero a zero, gracchiava. <br />Che fai?, chiese il commissario.<br /> La partita, disse Piero. <br />Spegni che mi è passata la voglia. <br /><br />Avanti, disse la voce oltre la porta.<br />La porta si aprì.<br />Ah, è lei, dottor Merli, si accomodi.<br />La voce della donna era cordiale, accogliente. Si era spostata gli occhiali dalla montatura nera rettangolare sulla testa, come un cerchiello sui capelli biondi.<br />A che devo questa visita?, chiese.<br />Lavoro, procuratore.<br />La donna fece spallucce ed allargò le braccia: siamo qui.<br />Un bambino di otto anni non è tornato a casa, ieri sera, attaccò il commissario.<br />Scomparso? Aveva qualcosa in mano?<br />Nulla. E’ uscito da scuola regolarmente. Intorno alle dodici e venti. Non ha preso il pullmann. Non è andato con gli altri compagni. Non si sa nulla. Volatilizzato. Sembra.<br />Volatilizzato.<br />Il procuratore gettò uno sguardo fuori. Gli uccelli dardeggiavano nell’azzurro del cielo. Sbuffò. Stanca. E qui cominciano i guai, sussurrò.<br />Già, fece il commissario. Che si fa?<br />Si indaga.<br />Come partiamo?<br />Avete sentito qualcuno?<br />Sì, i compagni, due bidelli, la maestra. Niente. Tutti la stessa cosa.<br />Che casino.<br />Già. Possiamo cominciare a intercettare le telefonate. <br />Di chi?<br />Di nessuno in particolare. O meglio, di questi. Bidelli, maestre. <br />Al buio.<br />Se preferisce, al buio. Farsi dare i tabulati delle celle vicino alla scuola. Al solito.<br />Non si può. Non più, fece secca la donna.<br />Come non più?<br />Non più. La nuova legge lo vieta.<br />Ma c’è di mezzo un bambino, si irrigidì il commissario.<br />Anche se ci fosse di mezzo il Padreterno. Non si può. Al buio o verso ignoti non si può. Perché a carico di questi non ci sono mica indizi di colpevolezza, vero commissario?<br />E certo che no. Sennò li avremmo già presi.<br />E quindi nisba.<br />Ma che legge è questa?<br />La legge dello stato. E’ l’autorità a fare la legge, non la verità, dicevano i romani.<br />Il commissario sentì l’amaro in bocca. Socchiuse gli occhi come per ripararsi dal riverbero del sole. Si passò una mano sui capelli brizzolati. Che si fa, allora?, chiese.<br />Si torna all’antico. Soffiate, appostamenti, colloqui, informatori, fotografie. Sperando che servano.<br />Sono servite di solito?<br />Quasi mai. Solo nei film americani. E neanche sempre.<br />Appunto.<br /><br />Pronto. Sì. Glielo passo subito, disse la donna mentre si asciugava le mani con un canovaccio a quadri. Si sporse dalla porta del soggiorno: Atenagora, al telefono, chiamò.<br />Il commissario si alzò lentamente, a piedi scalzi, aggirò la poltrona su cui era spaparanzato e andò ad afferrare la cornetta lasciata incustodita dalla moglie. Sì, sono io, disse, con chi parlo. Uhm. Uhm. Va bene. E richiuse.<br />Novità?, chiese la moglie sporgendo il capo dalla porta.<br />Forse.<br />Per il bambino?<br />Probabile.<br />Che storia, fece la donna.<br />Già, che storia.<br />Non si sa ancora nulla, vero?<br />Nulla. Ma domani potrebbe succedere qualcosa.<br />Era ora. E’ passata quasi una settimana. Tu che pensi: è vivo?<br />Speriamo.<br />Speriamo. Poveri genitori.<br />E poveri giudici.<br />Giudici?<br />Giudici. E poliziotti. Tutti con le mani legate.<br />La donna annuì. Ci vuole fortuna anche per cuocere un uovo.<br />Certo. Ma prima ci vuole la gallina che lo fa, l’uovo.<br /><br />La scuola elementare Pascoli era a pianta quadrata. Tutta vetro e cemento. Con un vasto cortile davanti e robinie e glicini a proiettar ombra. La ringhiera, di ferro, alta un paio di metri, verde bottiglia, correva per tutto il perimetro. Il cancello di ingresso sormontato dalla scritta in cubitali, arcuata: Scuola elementare G. Pascoli. Di sotto passarono i due poliziotti, dopo che qualcuno aprì. <br />Buongiorno, disse il commissario al bidello che li accoglieva davanti alla porta a vetri. Siamo venuti all’appuntamento.<br />Di qui, fece il bidello indicando un corridoio laterale. Lo seguirono. Le aule risuonavano di voci femminili che facevano lezione. Una donna in fondo spingeva un carrello con il mocio. Vennero introdotti in una stanza spoglia, una sorta di ripostiglio. Tre persone dentro.<br />Buongiorno, dissero il commissario e Piero.<br />Buongiorno, dissero in coro i tre.<br />Chi di voi mi ha telefonato ieri sera?, chiese Merli.<br />Io, si fece avanti un tarchiato semicalvo. Ci siamo consultati tra di noi e abbiamo pensato che ci sono delle cose che dovreste sapere.<br />Uhm.<br />Dunque, abbiamo fatto mente locale. E mettendo tutto in fila, ci siamo fatti convinti che c’è qualcosa di strano nella scomparsa di Andrea.<br />Strano?<br />Strano. Da qualche tempo alcuni di noi, io e gli altri due colleghi qui presenti, abbiamo un tizio particolare che si aggirava nei paraggi.<br />Particolare come?<br />L’omino sorrise, mostrando due denti guasti. Sorrise come uno che la sa lunga, tanto lunga. A cospetto di uno che non sa nulla. Proprio nulla.<br />Maresciallo…<br />…Commissario.<br />…Commissario, questo tizio è conosciuto come uno a cui gli piacciono i bambini.<br />Piacciono piacciono, nel senso…<br />Sì, nel senso.<br />E avete avvertito qualcuno?<br />La segreteria, che doveva avvertire qualcuno. Carabinieri. Polizia. Non so.<br />Lo conoscete, ‘sto tizio?<br />Si chiama Italo Fulvio. Fulvio di cognome. Secco, nero di capelli e di carnagione. Porta sempre degli stivali marrone. Fuma. Scomparso il bambino, scomparso lui.<br />Pensate che siano collegate, le scomparse?, chiese Piero.<br />Pensiamo di sì.<br />E perché non l’avete detto prima?, chiese Merli.<br />Glielo abbiamo detto: abbiamo dato importanza alla cosa quasi per caso. Parlando tra di noi del più e del meno. Ci dovete scusare, ma le cose sono andate davvero così.<br />Già, fece Piero.<br />Già, fecero gli altri.<br />E voi che pensate, allora?, chiese il commissario.<br />Noi? A pensar male si fa peccato, ma quasi si sempre ci si azzecca.<br />Capisco. Altro di ‘sto Fulvio?<br />Niente. Scapolo. Passato losco.<br />Grazie.<br />Grazie a voi.<br />I poliziotti strinsero le mani a tutti e uscirono in corridoi, accompagnati dal bidello dell’andata. Vi siamo stati utili?, chiese l’uomo.<br />Vedremo. Tutto è utile, disse Piero.<br />Se non ti ammazza, bofonchiò Merli.<br /><br />Il commissario entrò nel bar. Tintinnii di bicchieri e tazzine in sottofondo. Odore di caffè. Un barista lungo lungo e magro come un’acciuga che trafficava sotto il bancone alzò lo sguardo. Non fece nulla. Come se non l’avesse neanche visto. Merli gettò un’occhiata in giro. Al tavolino in all’angolo in fondo notò la capigliatura bionda del procuratore. Si avvicinò lentamente, quasi con cautela, passando tra i tavolini allineati. Si tastò le tasche della giacca come alla ricerca di qualcosa. Nulla. <br />Buongiorno dottoressa Romanut.<br />La dottoressa sollevò il capo: buongiorno a lei, Merli.<br />L’uomo scostò una sedia e si sedette senza attendere l’invito.<br />Stava leggendo il giornale, il magistrato. Lo ripiegò accuratamente e lo lasciò vicino al gomito. Novità, dottore?, disse, Come mai mi ha voluto vedere così di furia? <br />Merli tirò leggermente dal naso. Si passò una mano sotto il mento e poi l’alzò per richiamare l’attenzione del cameriere. Sì, ci sono novità, pare, disse d’un fiato.<br />Quali?<br />Abbiamo parlato con tre bidelli della scuola. Alcuni giorni prima della scomparsa del bambino hanno visto aggirarsi un tipo. Uno che si chiama Fulvio. Italo Fulvio. <br />Fulvio?<br />Fulvio di cognome. Si è fatto vedere per un paio di volte. Due, forse tre. E’ un tipo poco raccomandabile.<br />Lei sa tutto.<br />Quasi. Quanto basta per adesso, almeno.<br />Che si sa su questo?<br />Che è stato indagato per possesso e traffico di materiale pedopornografico. Se l’è cavata, però. E’ stato dentro per atti osceni qualche anno fa. Va dietro ai ragazzini. Gli piacciono. Li guarda, li scruta. <br />Inquietante.<br />Inquietante. E pericoloso.<br />Un santarellino.<br />Proprio. E nel quartiere c’è tanta chiacchiera che gira.<br />Tipo?<br />Questo. Che gli piacciono i bambini e se ne procura sempre.<br />Arrivò il cameriere.<br />Un caffè per me, disse la dottoressa. Lei?<br />Anche per me. E un bicchiere d’acqua fredda.<br />Due caffè e un bicchiere d’acqua fredda, confermò la donna. Dicevamo?<br />Dicevamo che ‘sto Fulvio è un pedofilo.<br />L’avevo già capito. Sposato? Parenti?<br />No. Niente moglie. Parenti, solo la madre. Anziana. Mezza rimbambita.<br />Ci avete parlato?<br />Poca roba. Come parlare al muro. Lo difende, certo. Dice cose strambe. Non lo vede da qualche settimana.<br />Abita con lei? <br />Sì e no. Ci abita quando ci abita. Sennò no.<br />Sennò no, certo.<br />Avete dato un’occhiata in giro, alla casa?<br />Sì. Trovato nulla. Nulla di rilevante, almeno. Qualche rivista porno sotto il materasso. Ma quelle ce le ha pure mio figlio di tredici anni.<br />Uhm.<br />Il cameriere arrivò con il vassoio. Poggiò le tazzine ed il bicchiere sul tavolino., Le tazzine fumavano. Il bicchiere era opaco a causa dell’acqua fredda. Una gocciolina scorreva lungo la parete, aprendosi la strada come un Nilo nel deserto. I due, in perfetta sincronia, strapparono un angolino delle bustine di zucchero e lo versarono nel cratere della tazzina. Mescolano con i cucchiaini appoggiati al piattino, riappoggiarono gli stessi cucchiaini intinti di marrone sul piattino e bevvero d’un fiato. <br />Ci vorrebbe una sigaretta, disse la donna.<br />Fa male.<br />Anche vivere fa male. Ma siamo qua. Dalla vita nessuno ne esce vivo.<br />Allora, che si fa?, chiese Merli.<br />Poca roba. Poca scelta. Insistere. Solo questo. Continuare a insistere.<br />Niente intercettazioni?<br />Non ancora. E’ troppo poco.<br />Come poco? Non ci sono abbastanza indizi di reato, come si dice in giuridichese?<br />Può darsi. Ma non è mica in corso.<br />Cioè?<br />Cioè che il reato deve essere in corso. Qui è in corso?<br />Che caz… cosa significa? Mi prende per il cu… in giro? Il reato caso mai è stato consumato: sequestro, si chiama.<br />La Romanut sorrise. L so come si chiama. Ma è così, ormai. E’ necessario che ci sia la certezza del reato. C’è la certezza?<br />Del reato?<br />Del reato.<br />Merli, tentennò:<br />La certezza proprio direi di no. Per quanto ne sappiamo potrebbe esserci stata una disgrazia, anche se…<br />Anche se sospettiamo di ‘sto Fulvio.<br />Sospetto non è certezza. Servono certezze. Questo dice la legge. E nel nostro caso le certezze non ci sono. O mi sbaglio? Non ancora, almeno.<br />Mi scusi, disse il commissario scaldandosi e scostando la sedia dal tavolino. Se non ricordo male, gli indizi di reato sono quelli che servono per chiedere l’arresto. Non è così?<br />La donna annuì.<br />E a cosa serve fare le intercettazioni se si sa già, con sicurezza, che si sta commettendo un reato? Questo non è ormai il momento per mettergli le manette ai polsi?<br />La donna fece spallucce: non servono a nulla.<br />E’ irrazionale. O sbaglio?<br />Già. Sed lex.<br />E mettere sotto intercettazione il telefono della madre?<br />La madre non è lui. E non credo che sappia di quello che sta combinando il figlio. O sbaglio.<br />Non ne sa nulla. L’abbiamo interrogata. E’ una povera vecchia. Ma…<br />…Ma mettere il suo telefono sotto controllo potrebbe farci scoprire dove si trova il figlio, giusto? E’ questo che vuole dire?<br />Esatto. <br />Non si può. Se non sa nulla di quello che ha combinato il figlio, non si può.<br />Non si può?<br />Non si può.<br />Sempre la legge?<br />La legge.<br />Ma neanche…<br />Neanche.<br />Merli si guardò attorno. Un occhio gli cadde sul giornale piegato. Dottoressa, una dichiarazione, almeno, potrebbe rilasciarla, disse. Così, tanto per togliere di mezzo la cappa di silenzio su questa storia.<br />La Romanut sorrise di nuovo: a che pro? Tenere desta l’attenzione?<br />E mettere in guardia la gente. Ma soprattutto cercare di farsi aiutare.<br />E non far sentire tranquillo il tipo.<br />Già.<br />Qualche trafiletto è comparso sulla stampa. <br />Solo?<br />Solo. Io non posso fare nulla. Non posso violare il segreto.<br />Sulle indagini?<br />Sulle indagini.<br />Sennò?<br />Sennò mi sostituiscono. O meglio mi possono denunciare per violazione del segreto d’ufficio. Al che i miei colleghi mi devono iscrivere nel registro degli indagati. Atto dovuto. E da qui scatta la sostituzione. Out.<br />Che storia. Siamo accerchiati.<br />Può ben dirlo.<br />Il commissario si fermò nuovamente. Gettò un nuovo sguardo al locale. Una donna gli passò davanti. Lui non la notò, neanche fosse trasparente. Sbuffò. Stanco. Confuso. Aveva prosciugato il fondo delle idee. Che cazzo di leggi, disse, mi scusi dottoressa.<br />Non si preoccupi. Capita anche a me.<br />Cosa?<br />Di scoraggiarmi. Di arrabbiarmi. E di usare certe parolacce. Come legge.<br /><br />Il commissario Merli guardava fuori dalla finestra. Tramonto con il sole a bagnomaria sull’orizzonte. Dietro i caseggiati rosseggianti della periferia si intuiva la pianura verde, rombante, inquinata. Il cielo azzurro era percorso dai voli geometrici dei passeri scuri. Passeri. Rondini. Cos’altro? Osservava qualcosa dentro la sua testa. Un puntino luminoso in un mare di inchiostro di seppia. La cravatta allargata al collo, un bicchiere di carta con il caffè della macchinetta in mano. L’altra mano infilata nella tasca dei pantaloni. Qualcuno bussò. Piero. <br />Commissario, ci sono cose nuove.<br />Merli si voltò: dimmi.<br />Io, Jovine e Barbon abbiamo fatto il giro dei quartieri. E’ stata dura, ma qualcosa è venuta fuori. Nel quartiere di San Giuliano abbiamo parlato con un edicolante. Ha riconosciuto Fulvio. Fulvio e il bambino.<br />Il bambino?<br />Sì, il bambino.<br />Insieme?<br />Insieme. Dice che se lo ricorda perché da qualche giorno veniva a prendere dei gormiti.<br />A prendere chi? E cosa sono ‘sti gomiti?<br />Gormiti, commissà, gormiti. Sono dei pupazzetti di plastica. Dei mostriciattoli. Che ai bambini piacciono tanto. Ci andava Fulvio in edicola. E’ lui che l’edicolante dapprincipio ha riconosciuto. E costano, ‘sti mostri, sa.<br />E che ci faceva Fulvio con i pupazzi? Pensi quello che penso io?<br />Credo di sì.<br />E il bambino?<br />Ecco il bambino. Dice sempre l’edicolante che una ventina di giorni fa. Si ricordi: una ventina di giorni. <br />La scomparsa.<br />Esatto. La scomparsa. Dunque una ventina di giorni fa Fulvio c’è andato con bambino.<br />Andrea?<br />Lui. L’ha riconosciuto dalla foto. Anche Fulvio l’ha riconosciuto dalla foto. Fulvio ha comprato al bambino quattro o cinque di ‘sti pupazzi e poi se lo portò via.<br />Tutto?<br />No. Qualche minuto dopo ripassarono davanti all’edicola. In macchina, stavolta. Fulvio alla guida, ovviamente, e il piccolo dietro. Coi pupazzi in mano. Contento e sorridente. Ora, non so se lei sa dov’è l’edicola. E’ in corso Umberto. Sempre pieno di traffico. Lì vicino c’è un semaforo che dura quanto i cento metri per una lumaca. La macchina di Fulvio si fermò davanti all’edicola. In coda. Andrea dietro. Lo chiamò persino, all’edicolante. Gli mostrò da lontano i pupazzi che aveva in mano. <br />Chiamò l’edicolante?<br />L’edicolante.<br />Chiamalo. Voglio parlarci.<br />Non c’è bisogno: è qua davanti che aspetta.<br />Bravo. Fallo entrare. Chiama Jovine per la deposizione. E la Romanut. Passamela, poi. <br />Il procuratore?<br />Quante Romanut conosci tu?<br />Solo quella.<br />Ecco.<br />Piero girò sui tacchi, afferrò la maniglia per uscire, ma si bloccò. Girò la testa verso Merli, abbassandola un po’: Commissà, che dice, ci siamo?<br />Chi lo sa.<br /><br />Il cellulare gli squillò nella tasca interna della giacca. Gli saltellò dentro come un animaletto epilettico.<br />Pronto, disse Merli.<br />Pronto, sior commissario, fece la voce all’altro capo.<br />Ah, sei tu, Barbon. Tutto a posto?<br />Sì. Gh’ avèmo il decreto. Ma, sior commissario, gh’hanno fato un film.<br />Che film.<br />Eh, che film. Schersa lei, sior commissario. Ma ci hanno fato ritornar dopo una settimana perché i se dovea riunir. Tre giudici se dovea riunir. Dicono che xe la lege. Lo sa lei? Mi no de certo. Ora, finalmente, avemo l’autorizzasion.<br />Uhm. Bravo. Bravi tutti.<br />Grassie. Speremo che serva sennò semo fregà.<br />Dove siete?<br />Par strada.<br />Portate tutto alla Romanut. Ora la chiamo e l’avviso.<br />Occhei, commissario. A dopo.<br />Richiuse. Fece il numero della Romanut. Pronto, dottoressa. Jovine e Barbon sono per strada. Hanno autorizzazione per le intercettazioni. Sì. Lo penso anch’io. E’ passato troppo tempo. Se quello non è fesso, ha almeno cambiato numero. O cellulare. Arrivederci.<br /><br />Quello, in effetti, non era fesso. O almeno non quanto speravano loro. Il numero era disattivato. Muto. Numero inesistente, diceva la signorina del servizio telefonico. <br />Tutto da rifare, disse il commissario. ‘Sto cazzo di legge è fatta per i criminali. Altro che. Una tagliola, ecco cos’è. E il tempo è la tagliola di tutti. Gioca contro di noi. E a favore loro.<br />Si slacciò la cravatta e la gettò sul divano. Appoggiò i piedi sul tavolino basso. Le punte delle scarpe erano impolverate. Le strofinò sui polpacci. Prima l’una e poi l’altra. Tornò a fissarle. Ci vuole un altro colpo di culo, sussurrò.<br />La moglie gli portò il caffè. Adorava il caffè dopo cena. Nicolò?, chiese.<br />In camera sua. Fa i compiti.<br />Non è tardi?<br />Forse. Lo sa lui. Ormai chi gli può dire niente!<br />Merli tacque di nuovo. Pensieroso. Si alzò, andò alla libreria ed afferrò un romanzo di Mario Soldati. Lo sfogliò distrattamente. Si fermò a guardare il muro compatto di copertine. Ma inseguiva qualche pensiero dentro di sé.<br />A che pensi?, chiese la moglie.<br />Nulla. Che è tutto da rifare.<br />Sembri Bartali.<br />Lui sorrise.<br />Perché è tutto da rifare?<br />Perché il cellulare del tizio è morto.<br />Che vuol dire?<br />Questo. Vuol dire che non ne possiamo fare né utile né capitale. <br />E ora?<br />Ora niente. Così. Bisogna guardare in faccia la realtà. Così almeno ci può prendere per il culo come vuole.<br />Chi?<br />La realtà.<br />Lei annuì: punto e a capo, allora?<br />Tutto da zero. Vediamo. Fece schioccare la lingua: ho la bocca dolciastra, disse. Il caffè era troppo dolce.<br />Due cucchiaini come piace a te. Sarà lo zucchero.<br />O i cucchiaini.<br />O il caffè.<br /><br />Ma quanto tempo è passato?, chiese Jovine quasi sovrappensiero.<br />Quasi un mese e mezzo, disse Piero. E ancora siamo al punto di partenza. E’ la millesima volta che facciamo ‘sta strada.<br />E meno male che quello del negozio si è ricordato. Sennò col cazzo.<br />Meno male.<br />L’auto con a bordo i due filava liscia sulla statale. Sul sedile posteriore dormicchiava la nuova cartella con al documentazione del tribunale. Verde, con due strisce orizzontali nere. Dentro, tra l’altro, anche la nuova autorizzazione per le intercettazioni. Il nuovo numero l’avevano trovato grazie ai ricordi del commesso di un negozio di cellulari e roba del genere. Si ricordava di Fulvio. Non sapeva perché. Se lo ricordava e basta. <br />La Romanut li aspettava. Di nuovo. Seduta alla scrivania. La cicca accesa nel posacenere che emetteva un filo di fumo. Spulciava atti, documenti, fogli. Poi alzava la testa, guardando di fronte, portandosi una matita alle labbra e sistemandosi gli occhiali sul naso. Pensierosa. O perplessa.<br /><br />Ve lo dico subito: la storia non finì bene. Non è il paese dei lieto fine, questo. E poi non è che debbano finire bene per forza. Anzi. Il mestiere che facevo mi ha insegnato che sono poche le storie che finiscono come devono finire. Tu vai avanti, ti impegni, sudi come un cane, speri di dare il tuo contributo. Ma c’è sempre qualcuno che ti va contro. Che trama contro il tuo lavoro, le tue speranze, contro di te. La sensazione ce l’hai spesso, ma tiri avanti lo stesso. Cosa vuoi che accada, ti dici, peggio per loro. Io ho la forza delle mie idee e del mio impegno. Macché. Alla fine, la spuntano loro. Per questo ‘sto paese sta andando a rotoli. Tutto comincia da piccoli. Se a un bambino insegnano a dire noi, ma a pensare io, è già tutto perduto. E così è stato da noi. Ognuno per sé. E la legge fatta per ciascuno, non per tutti. Rispettare che? Rispettare cosa? Il mio privilegio. Poi si cambia il senso delle parole. Lentamente. Impercettibilmente, come dicono quelli che hanno studiato tanto. Come la rana messa a cuocere a fuoco lento sul fornello. La sapete la storia? Una rana viene messa in un bel pentolone d’acqua da uno scienziato. L’acqua è a temperatura ambiente. La rana ci si trova bene. Tutto occhei. La pentola poi viene messa sul fornello. E l’acqua comincia a riscaldarsi. Lentamente. All’inizio diventa tiepida. La rana ci si trova benissimo. E’ allegra, canta e ride, se volete immaginarvela così. Non ha nessuna intenzione di uscire. Ma a poco a poco l’acqua diventa sempre più calda. La rana ci si trova ancora bene. Però a poco a poco, man mano che l’acqua si riscalda, sente le forze che l’abbandonano. Ma non fa nulla. Si trova ancora bene. E poi non ha molta voglia di lasciare quel calduccio. Sta bene. Certo un po’ di caldo, ma sta bene. La temperatura aumenta. Le forze abbandonano sempre più la rana. Ora è decisamente stanca, quasi cotta, diremmo. Si accorge del pericolo, ma ormai non ha più le energie per fare un balzo e scappare. Il caldo aumenta e anche la sua angoscia, mentre la sua debolezza è massima. Alla fine, quando si rende conto di sta per morire, tenta disperatamente di salvarsi. Ma ormai è troppo tardi. E muore cotta. E’ stato furbo l’uomo che l’ha messa in pentola. L’ha fatta bollire lentamente. Senza dare nell’occhio, senza allarmare la rana. Se, invece, l’avesse gettata fin dall’inizio nell’acqua bollente, lei si sarebbe ribellata, con balzo sarebbe schizzata via. Invece, con il metodo della lenta cottura, piano piano, è riuscita a fregarla. Così siamo noi, nel nostro paese. Hanno cambiato il senso di alcune parole e hanno spacciato il privilegio per libertà. Hanno spacciato l’egoismo per iniziativa e l’arbitrio per privacy. E io non ce la facevo più. Il voltastomaco non mi faceva dormire la notte. Prima di dimettermi ci ho pensato bene, naturalmente. Ma più ci pensavo, più cresceva lo schifo e più mi convincevo di dovermene andare. Per tornare a noi, il bambino non lo trovammo. Ma scoprimmo che fine fece. Impotenti. Ce lo sfilarono da sotto il naso. Lo scoprimmo, ma non riuscimmo a fare nulla. Il massimo dell’impotenza. I genitori me li sono sempre immaginati disperati, con gli occhi rossi di collera. Giustamente. Non so se hanno capito di chi fosse la colpa. Non mi stupirebbe che se la fossero presa con noi. Noi poliziotti, dico. O se si resero conto che tutto nasceva dall’alto, dalla politica, dal potere, dalla legge che dovrebbe tutelarci e farci sentire tranquilli. Non gliel’ho mai chiesto. Non li ho mai incontrati. Mai. Impotenti, siamo. Impotenti. E soli. Squallidamente soli. Dopo sessanta giorni di intercettazioni avevamo poco o nulla in mano. Bla bla, bla bla. Quello, Fulvio credo si chiamasse, parlava parlava ma non si scomponeva. Il tempo passava e quello non si scopriva. Sapeva che stavamo all’ascolto? Può darsi. O lo intuiva almeno. Stupido non era. Per cui, probabilmente, c’era arrivato che noi lo sentivamo. E noi ad ascoltare. Quello nulla. E il tempo filava come una goccia nella siringa. Settantacinque giorni. Settantacinque notti. Due mesi e mezzo. Tanto per legge potevamo ascoltare. Non un giorno in più. A mezzanotte del settantacinquesimo giorno, zac: staccare tutto. Tutto questo è il tempo massimo che, in Italia, si può perdere per salvare la vita di un bambino. La legge. L’ultimo giorno doveva essere il 29 settembre. Sono forte con i numeri, io. Mi ricordo le date. Tutte le date. L’attentato di Sarajevo e la strage di Ustica, l’omicidio di Moro, la vittoria ai mondiali del 1982 e quella del 2006. Tutte. Il 29 settembre, dicevo, scadevano i settantacinque giorni. Il 30 sarebbe stato troppo tardi. Anzi, alle 0,01 del 30 sarebbe stato già tardi. Poco prima di staccare, però, abbiamo avuto l’imbocco giusto. Si capiva tutto. Mi sono sempre chiesto se il tizio l’avesse fatto apposta, se conosceva la normativa, se aveva volto prenderci per il culo. Qualche risposta me la sono data, ma me la tengo per me. Insomma, tutto fu chiaro all’improvviso. Alla fine. Quando ormai non c’era più tempo. Io e Jovine stavamo ad ascoltare. Barbon non c’era quella notte. C’era uno della scientifica, di cui non mi ricordo il nome, Frigerio forse, non so. Si parlava di soldi. Si parlava del regalo che era poi il bambino. Piè, disse Jovine, se lo stanno vendendo come carne da macello. Non lo potrò mai dimenticare. A chi? Bè, pedofili forse. Trapianti, forse. Sicuramente non a suore di carità. Piè, se lo vendono, mi disse ancora Jovine con le lacrime agli occhi. Ascoltammo ancora. Speravamo che si tradissero, che si lasciassero sfuggire il luogo della consegna. Nulla. L’ultima cosa che quello disse fu: ti chiamo domani per dirti dove. Domani era tardi. Ci guardammo io, Jovine, il commissario, l’altro tecnico. Silenzio. Impotenti, sconfitti. Dalla legge, sconfitti. Forse fu quello il momento in cui presi la decisione dell’addio. Tornai a casa dopo aver girato per i bar aperti di mezza città. In mente mi rimbombavano le parole di mio padre: fa’ la cosa giusta e se noi puoi farla giusta, falla e basta. E mi dimisi. L’indomani presentai le dimissioni. Nessuno tentò di farmi cambiare idea. Nessuno ci sarebbe riuscito, d’altronde. Divenni un ex. Ex poliziotto, ex servitore di uno Stato ex. Solo la mia dignità non si era dimessa, non era diventata ex. Per questo mollai tutto. Per non essere preso per il culo. Da nessuno. Neppure dalla legge.ALTRiTALIAhttp://www.blogger.com/profile/09128053771899935682noreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-4298065194492417554.post-84373706673242582092010-04-17T00:00:00.000+02:002010-04-17T00:06:34.363+02:00DELLL’ORIGINE:Come nacque e perché Forza Italia .di Giuseppe Tramontana<br /><br />“L’origine è la meta.”<br /><br />(K. Kraus, Detti e contraddetti)<br /><br />Ormai abbiamo ingoiato tutto, il Lodo Alfano e lo scudo fiscale, Di Girolamo e il legittimo impedimento, persino le regionali. Eppure, qualcosa dovrebbe continuare a non essere dimenticata. Qualcosa che sta all’origine di tutto ciò che in Italia stiamo vivendo e che sta ancora conficcata nelle carni della democrazia. Come un corpo estraneo. Come una scheggia sotto pelle. Magari per un po’ ce ne si dimentica. Ma, viene il momento in cui ci passi il dito sopra e sfiori quel rilievo che deforma la compattezza liscia dell’epidermide. E’ lì. Non ci puoi fare niente. Non te ne puoi dimenticare. Almeno fin quando non la estrarre del tutto. Ecco il vizio della memoria che ci fa ritornare a ciò che non sarebbe dovuto accadere, ma che accadde. L’entrata in scena, più di quindici anni fa, di Forza Italia e del suo demiurgo, Silvio Berlusconi. Bisogna difendere la democrazia, direbbe Michel Foucault, ma noi allora non ne fummo capaci. E ora? Intanto ricapitoliamo. Così tanto per non dimenticare… Magari ci viene voglia di riprendere la battaglia. Per la democrazia. E, quindi, per la nostra dignità.<br /><br />Dall’azienda al partito. E ritorno.<br /><br />Anno Domini 1993. La Fininvest, l’azienda televisiva del cav. Berlusconi Silvio da Arcore, classe 1936, è con l’acqua alla gola. Il nodo dei misteriosi e cospicui finanziamenti ottenuti negli anni Sessanta da finanziarie svizzere, dei fidi ipotecari per decine di miliardi incassati da banche dirette da uomini della P2, del fallimento dell’avventura finanziario-televisiva in Francia (La Cinq, circa 200 miliardi buttati ai piccioni) sta strozzando l’azienda. E tutto ciò nonostante i miliardi in nero accumulati nelle misteriose holding (All Iberian, ma non solo. Altre, a volo d’uccello, sono la Principal Network delle Isole Vergini Britanniche, la Rete Europa International di Londra, la Tricom di Parigi, la Omc Corporation di Panama, la Rete Europa International N. V. di Curacao, Antille Olandesi). Bene, praticamente, nel 1993 emerge in tutta la sua evidenza la verità non dicibile: la Fininvest sta annegando nei debiti. Ma ce la può fare. Se solo riesce a far fruttare a pieno il naturale appeal che esercitare sulla politica: essendo un’azienda televisiva è capace di giungere e influenza milioni di telespettatori, cioè di elettori. Cosa che, in una democrazia ampiamente partitocratica come la nostra, non faceva di certo venire l’allergia a nessuno.<br /><br />Gli anni Novanta si aprono con non pochi problemi per il Gruppo Berlusconi. In primis, c’è la questione dei debiti, stimati in qualcosa come 5-6 miliardi di lire. In secondi, vi è la situazione politica improvvisamente divenuta indecifrabile, nebulosa. Il 5 aprile 1992 si assiste, in Italia, ad un vero terremoto politico. La Dc perde quasi il 5% dei voti, passando dal 34,3 al 29,7%, il Psi viene anch’esso ridimensionato, mentre sale la stella della Lega (dallo 0,5 all’8,7%). Insomma, il CAF (Craxi-Andreotti-Forlani), ambito di riferimento di Berlusconi, non dorme sonni tranquilli, benché a mitigarne le preoccupazioni ci pensa il crollo del più grande partito dell’opposizione, il PDS, passato dal 26,6 al 16,1%. Questo quadro turba il Cavaliere. Da sempre appoggiatosi al CAF ed a Craxi in prima persona, ne ha supportato la politica ed i disegni mediante la manipolazione pressoché scientifica dell’informazione televisiva, ricevendone in cambio quegli appoggi necessari per mettere ramificare i propri interessi economici. Con loro alle spalle ed con gli ausili dei confratelli della P2, il Cavaliere da anni non ha nulla da temere. Ogni tanto qualche piccolo grattacapo, una preoccupazione, un’ordinanza del giudice che impone il silenzio alle sue televisioni, ma gli amici a che servono, se non a intervenire al momento del bisogno? Ma Tangentopoli rimescola tutte le carte e le certezze.<br /><br />Qualche anno prima, Berlusconi ha voluto sondare il terreno della politica. Si tratta di tre ‘uscite’ utili non solo ad avere il polso dello stato del consenso popolare nei suoi confronti, ma anche per ‘avvertire’ i potenti amici che finora l’hanno coccolato, vezzeggiato e favorito.<br /><br />E’ il 4 ottobre 1990. Berlusconi non ha mai utilizzato le sue emittenti televisive per rilasciare interviste o esprimere opinioni politiche. Quello lo fanno i suoi talkshow. E ad un talkshow si rivolge per rilasciare la prima, lunga intervista incentrata su tematiche politiche. Certo, ha centinaia di giornalisti, televisivi e della carta stampata, a sua disposizione. Ma furbescamente opta per il più apolitico dei suoi conduttori, il buon senso personificato, l’ignoranza (o pseudo-ignoranza) innalzata a mito, stereotipo e blasone: Mike Bongiorno, il ‘quizzarolo’ che si rivolge (e piace) ad una massa sterminata di persone di tutte le età e le estrazioni sociali, casalinghe soprattutto. Il programma è ‘Telemike’, il quiz condotto dal bravo Bongiorno, in onda su Canale 5 alle 20.40, massima fascia d’ascolto. L’innocuo dipendente Mike concorda preventivamente una serie di domande con il principale. Che tutto sia sotto controllo, per carità. Per la bellezza di 34 minuti, il Cavaliere da’ fiato alle trombe, sciorinando il suo pensiero, attaccando la ‘Legge Mammì’, in discussione alla Camera, e menando fendenti contro la sinistra. Come scrive A. Giglioli nel libro Forza Italia, “è evidente che Berlusconi pensa soprattutto a vendere una buona immagine di sé, a ottenere il massimo effetto in un terreno amico, a sembrare simpatico, sorridente, elegante e gioviale. Chiede Mike Bongiorno: ‘Chi butterebbe giù da una torre fra Oscar Mammì, Carlo De Benedetti e Ciriaco De Mita?’. ‘Nessuno dei tre’, risponde Berlusconi smagliante, ‘perché con una simile compagnia sono convinto che correrei meno rischi a buttarmi giù io’. Ogni risposta viene accolta dal pubblico in sala con fragorosi applausi e ovazioni. Ogni battuta con grandi risate. Quando il cavaliere ringrazia tutte le signore d’Italia, le ‘maggiori artefici della fortuna delle mie reti’, due donne gli gridano ‘Bello!’. Alla fine, Sua Emittenza si congeda e tutti i presenti si alzano in piedi. Nell’euforia generale Mike saluta: ‘Evviva Silvio Berlusconi, lunga vita al nostro presidente!’”.<br /><br />A dispetto della vulgata secondo cui lui interpreterebbe il ruolo dell’antipolitico, si sa degli stretti legami tenuti, fin dagli anni sessanta, con il mondo politico. E sempre con un solo obiettivo: ottenere favori. Dalle rotte aree su Segrate, alle concessioni edilizie, dai finanziamenti da parte delle anche alle vicende delle televisioni. Coperture e scoperture. Una mano lava l’altra e tutt’e due si fregano l’asciugamano. Pochi mesi dopo la sortita da Mike Bongiorno, il Cavaliere interviene l congresso di un partito politico. E’ il 15 maggio 1991 e per la prima volta lo accoglie il palco del PSDI. Riferiscono le cronache che le sue parole sono un vero omaggio al segretario Carlo Vizzini, oggi deputato Pdl, oltre che chiacchierato collettore di voti e provvidenze a Palermo, allora titolare del ministero-chiave che sta a cuore alla Fininvest: quello delle Poste e Telecomunicazioni. Il PSDI è anche il partito che, una decina d’anni prima, era finito nell’occhio del ciclone perché i suoi segretari erano iscritti alla P2, come il confratello Pietro Longo. Un mese e mezzo dopo, Berlusconi corre ad un altro congresso, quello socialista di Bari del 30 giugno. Come non farsi vedere dall’amico Bettino Craxi? Il 5 agosto l’attivismo del Cavaliere ottiene un tangibile risultato: il Parlamento approva la legge di riordino del sistema televisivo (la cosiddetta legge Mammì), che consente alla Fininvest di conservare le tre reti televisive nazionali, oltre alle trenta emittenti locali. Il 30 novembre, altro meeting importante. Si tiene all’hotel Principe di Savoia, a Milano. E’ qui che avviene l’incontro tra Berlusconi e il Presidente del Consiglio Andreotti. Il patron della Fininvest si dichiara pubblicamente favorevole a un accordo forte e stabile per il futuro tra Dc e Psi. Come dire? Queste sono le mie preferenze. Mie, dei mie giornali e delle mie televisioni. Addio imparzialità!<br /><br />Però, le elezioni politiche del 1992 rinsaldano amicizie ed alleanze. All’orizzonte, intanto, si intravvedono grossi nuvoloni. E tempesta. Soprattutto per l’amabile Cavaliere d’Arcore. Si tratta dei rombi sordi della nascente Tangentopoli, che da Milano cominciano ad udirsi nelle redazioni dei giornali. Il primo segale, come si sa, è l’arresto di Mario Chiesa, il corrotto esponente socialista presidente del Pio Albergo Trivulzio (la ‘Baggina’), avvenuto il 17 febbraio 1992, appena 48 giorni prima delle elezioni politiche. Con disprezzo pari solo all’arroganza Craxi liquida la vicenda con la definizione di ‘mariuolo’ per il malcapitato Chiesa, sola mela guasta tra milioni di succosi frutti doc. Da lì a poco, si scoprirà che proprio Craxi è il re delle tangenti.<br /><br />Che anno, quell’anno!<br /><br />Quello è l’anno – il 1992 – della morte di Giovanni Falcone (23 maggio), dell’elezione alla carica di Presidente della Repubblica di Oscar Luigi Scalfaro (25 maggio) e dell’attentato a Borsellino (19 luglio). Chi potrà mai dimenticarlo? Trattative tra mafia e Stato? Papelli? Allora, i più (cioè i comuni cittadini) non ne sanno nulla. E non sospettano nulla, naturalmente. Intanto, l’elezione a Presidente della Repubblica dell’esponente della sinistra Dc appare come un pessimo segnale per il CAF e per Berlusconi, primo megafono massmediatico del convivio d’assalto. Sia pure discretamente, davanti agli avvisi di garanzia per faccendieri, imprenditori, uomini politici, funzionari e compagnia bella, Mr. Fininvest inizia le prove tecniche per il suo lancio in politica. Nella politica ‘politicata’, intendiamo. Il 13 giugno, S. Antonio da Padova, nel corso di un convegno a Villa d’Este, sul lago di Como, a un giornalista che gli chiede quale sarebbe il suo candidato premier preferito, risponde: “Chi può dirlo? Però ho letto sull’ ‘Indipendente’ un sondaggio nel quale il 76% degli intervistati ha fatto il mio nome: se le cose stessero così, se in tanti me lo chiedessero, magari potrei farci un pensierino”. Nel frattempo, Scalfaro non offre l’incarico di formare il nuovo governo a Craxi: altro brutto segnale per il leader Psi. La bufera si avvicina sempre più. E non vengono chiamati neanche gli amici di Berlusconi. Niente Forlani, niente persino Andreotti. Viene chiamato, invece, un delfino di Craxi, Giuliano Amato, un docente di diritto che più volte ha assunto posizioni autonome e defilate rispetto a quelle del leader.<br /><br />Ad Arcore, nel mentre, si trema. Fibrillazione. Tangentopoli avanza e il 15 settembre il nome della Finivest fa il suo ingresso ufficiale in uno dei filoni di indagini. A fare il nome della società al pm Di Pietro è Augusto Rezzonico, ex presidente delle Ferrovie Nord e poi senatore Dc. Racconta, Rezzonico, che nel precedente febbraio, proprio mentre le manette scattavano ai polsi del ‘mariuolo’ Chiesa, nella nuova legge istitutiva del nuovo codice della strada, DC e PSI hanno inserito un emendamento, passato inosservato ai più, per favorire “la Fininvest, gruppo Berlusconi, unica accreditata depositaria del know-how tecnico necessario per la realizzazione di un sistema di segnalazione elettronico per le autostrade, chiamato Auxilium, un business valutabile 1.100 miliardi di lire (…). Noi della Dc aspettammo che qualcuno della Fininvest si facesse vivo”. Il contato era avvenuto tra Sergio Roncucci, capo delle relazioni esterne di Edilnord, la società edilizia con a capo Berlusconi, e lo stesso Rezzonico. “Prima di tutto – dice il democristiano – Roncucci mi ringraziò e mi confermò l’impegno della Fininvest per far fronte alle contribuzioni in favore della Dc per il favore ricevuto”.<br /><br />Nel secondo semestre dello stesso ’92, nei giornali già circola la voce di un prossimo impegno in politica da parte del Cavaliere. Tanto più che, alle varie convention di imprenditori, piccoli, medi, grandi o giganteschi, Berlusconi, oltre ad insistere con gli astanti perché investano in pubblicità sulle reti Fininvest, si lascia andare in considerazioni sempre più apparentemente spassionate e spericolate sulla situazione politica del paese e sul rischio di un avvento al potere della sinistra. Tra i primi a indicare le velleità politiche del Cavaliere c’è Giovanni Valentini, ex direttore dell’ “Espresso” ed editorialista de “La Repubblica”. Il 6 novembre, sul settimanale “Venerdì”, scrive: “Adesso che la politica è arrivata al fondo e il potere di Berlusconi si è ulteriormente dilatato, diventa attuale il rischio che Sua Emittenza riesca a convogliare il consenso attraverso i canali della comunicazione di massa (…). Nella futura Repubblica basata sulla telecrazia, Berlusconi potrà persuadere gli italiani a comprare fustini di detersivo come a vendere voti, scegliere un film come un leader (…). Il presidente della repubblica, il presidente del Consiglio e giù fino al sindaco verranno eletti a furor di popolo, secondo gli input de televideo. Sarà il trionfo, l’incoronazione di Berlusconi, re dei mass-media, sovrano di tutti i circenses, imperatore dell’etere”. Azzecca tutto, Valentini. Avrebbe dovuto aggiungere, da conclusione del periodo: e sultano delle etère, metaforiche e no.<br /><br />Quaranta giorni dopo, il 15 dicembre, Tangentopoli surriscalda il clima politico e giudiziario italiano: Craxi riceve il primo avviso di garanzia per il reato di ricettazione e violazione della legge sul finanziamento pubblico dei partiti. L’11 febbraio successivo, Craxi si dimetterà dopo aver ricevuto altri cinque avvisi di garanzia, concludendo una parabola a capo del PSI durata 16 anni e 7 mesi. Ma il terremoto non s’arresta. Molti altri sì. E a molti altri pervengono avvisi di garanzia a domicilio. Il 27 marzo Andreotti viene accusato dai magistrati di Palermo di concorso esterno in associazione mafiosa; il 5 aprile tocca a Forlani: è accusato degli stessi reati di Craxi. L’8 aprile è la volta di Gianni Letta, vicepresidente della Fininvest. Davanti ai pm, ammetterà che nel 1989 ha versato nelle casse del PSDI una settantina di milioni di lire. Ma le disgrazie non arrivano mai da sole. Oltre alle vicende giudiziarie che coinvolgono i suoi uomini e, quindi, la sua azienda, Berlusconi deve affrontare un nemico ben più temibile: la crisi finanziaria del gruppo. E’ il momento di accelerare l’ingresso in politica.<br /><br />Il 15 aprile 1993, otto giorni dopo il coinvolgimento di Letta, Berlusconi convoca in gran segreto ad Arcore i dirigenti della Mondadori. E’ il primo annuncio della sua “discesa in campo”: “C’è il fondato pericolo – sostiene – che si crei una situazione ostile ai nostri interessi. Bisogna prepararsi a scendere sul terreno politico”. Da quel giorno, cene, contatti, pranzi di lavoro, incontri, patti, telefonate, fax. Manovre per sondare la fattibilità della cosa agli occhi di politici, imprenditori, finanzieri. Il tutto con circospezione e accompagnato da dichiarazioni di segno opposto. Ad ogni piè sospinto sbuffa che è stufo di essere ostaggio dei partiti, schiavo persino. Ma la realtà delle cose dice chiaramente il contrario: lui grazie ai partiti ed agli amici Craxi, Forlani, Andreotti, e grazie ai confratelli piduisti ha prosperato, ha costruito un impero massmediatico ed una ricchezza le cui radici affondano in zone misteriose ed ambigue della finanza nostrana. Ma ora, la situazione è vicina al collasso. Bisogna darsi una mossa. Nel primo semestre del 1993, la raccolta pubblicitaria, il polmone finanziario della Fininvest, fa registrare un modesto aumento del 4,5%. Inoltre, si parla insistentemente di una imminente cessione della Standa, che ritarda i pagamenti ai fornitori, e di un consistente pacchetto azionario della spagnola Telecinco. Alcuni giornali riferiscono che il produttore cinematografico Vittorio Cecchi Gori, socio di Berlusconi al 50% nella Penta, pur di incassare i 200 miliardi che gli spettano per il pagamento dei diritti di antenna, gli concede una dilazione in 48 rate mensili. Sabato 5 giugno, davanti a pochi, selezionati dirigenti della Fininvest e ad alcuni giornalisti amici, tra cui l’inviato di Montanelli, Federico Orlando, Berlusconi dichiara: “io sono interessato a non fallire; non ho neanche una casa perché sono tutte delle banche, verrò da voi per un piatto di minestra. Andiamo a fondo io, il Paese e tutti voi, se si va nella direzione politica di sinistra (…). Non c’è nulla fra le cose che esistono che possa salvarci. Io però vedo una nuova forza politica centrale guidata da me; un rassemblement delle forze moderate, compresa la Lega, che è ferma al Po. Altri leader oltre me non ci sono: Cossiga è incostante, Amato gioca con Eta Beta, Agnelli, al termine di una lunga telefonata nella quale gli ho fatto un quadro disperato della situazione, mi domanda: ‘Come sta Van Basten?’. Gli ho sbattuto il telefono in faccia.”<br /><br />In quei mesi cruciali del 1993, Berlusconi , grazie alla mediazione del factotum Dell’Utri, invita ad Arcore Ezio Cartotto. Chi è costui? Già braccio destro di alcuni big come l’ex ministro Giovanni Marcora e Piero Bassetti, è un esperto di formazione politica. Si presenta a casa di Berlusconi con il figlio Davide. C’è una riunione segreta. I due, Cartotto e Berlusconi, si conoscono fin dall’inizio degli anni ’70. Giunto nel salotto buono del capo Finivest, viene subito informato che c’è un altro ospite. E che ospite! Bettino Craxi. I tre cominciano ad analizzare la situazione politica italiana. Craxi cammina nervosamente avanti e indietro. Quando Cartotto nomina Martinazzoli, Bettino sbotta, rivolto a Berlusconi: “Martinazzoli è della sinistra Dc, per te è peggio di Occhetto. Quelli della sinistra Dc sono i tuoi nemici, ricordatelo sempre, più di quelli del Pds. Non farti illusioni (…). Bisogna trovare un’etichetta, un nome, un simbolo, un qualcosa che possa unire gli elettori che un tempo votavano per il pentapartito. Sarebbe importante distinguere tra Nord e Centro-Sud.” Craxi, al Nord, suggerisce un accordo con la Lega. Ma Berlusconi accoglie freddamente la proposta. Per il Sud, nessun problema per un’alleanza con Fini. Craxi continua: “ con l’arma che tu hai in mano delle televisioni (…) ti basterà organizzare un’etichetta (…), hai uomini sul territorio in tutta Italia, puoi riuscire a recuperare quella parte di elettorato che è sconvolto, confuso….” Dopo questo colloquio, il grande capo si convince: il partito si farà. E lo comunica a Dell’Utri, fautore del progetto fin dalla prima ora. Si era tentato di convincere prima Mario Segni e poi Mino Martinazzoli: che fossero loro a lavorare per lui, mentre le sue televisioni erano messe a disposizione del nuovo soggetto politico. Ma i due dicono no. La situazione è pessima: 5 mila miliardi di debiti non sono pochi e Franco Tatò, l’amministratore delegato del gruppo che paventava una dichiarazione di fallimento, con i libri in tribunale. Solo Dell’Utri preme per il partito. Gianni Letta, Fedele Confalonieri, Maurizio Costanzo, Indro Montanelli, Federico Orlando, Giorgio Gori sono per il non scendere in campo. Successivamente ai favorevoli si associano anche Cesare Previti ed Ennio Doris, presidente di Programma Italia.<br /><br />La collaborazione con Cartotto non dura. Come racconterà egli stesso ai giudici di Palermo e Caltanissetta, nell’ambito del processo a carico di Dell’Utri, viene liquidato perché esterno all’azienda Fininvest e quindi non può avere il principale requisito richiesto: un legame di dipendenza con l’azienda.<br /><br />Nel frattempo Berlusconi ed il fedelissimo Dell’Utri scartano le ipotesi di aggancio o collaborazione con partiti già esistenti, come la Lega di Bossi. Anzi, dal Carroccio partono critiche velenose. Al Cavaliere i leghisti ricordano i suoi trascorsi all’ombra del CAF. Attraverso alcune interviste, Bossi fa intendere di non avere intenzione di pagare il resto dei 300 milioni pattuiti con le reti Fininvest per la campagna elettorale e qualche altro leghista ironizza sul fatto che il cavaliere voglia fondare una sorta di “Lega dei ricchi”. In questo clima, Roberto Maroni, numero due del Carroccio, in un’intervista al mensile “Prima”, nel settembre 1993, afferma: “Berlusconi vuole entrare in politica? Che lo faccia. Però non credo sia una buona scelta. Gli imprenditori in politica fanno disastri: curano i loro interessi e fanno lobby. Se proprio volesse mettersi in politica, farebbe quindi meglio a sommettere di guidare la Fininvest (…).” Di lì a pochi mesi, la Lega diventerà alleata di Forza Italia e Maroni andrà al Viminale come ministro degli interni. Niente male, no? Acide le dichiarazioni di Silvano Labriola, vicepresidente della Camera del PSI, uno dei pochi a non essere sfiorato da Tangentopoli: “Con chi ha deciso di stare Berlusconi? Ma naturalmente con chi vince. Per questo, ora, essendo la politica ancora nelle nebbie, sta sulle punte, assaggia, si sporge poco. Forse medita di ancorarsi al Sud alla Dc di Ceppaloni (paese natale di Mastella, ex segretario di De Mita, nda) e al Nord a quella di Martinazzoli, ma ha paura per il momento di fare passi affrettati. La sua area politica comunque è quella del centro cattolico-liberale (…). Da ricordare sempre, per la storia, la rapidità con la quale Berlusconi a Milano e dintorni ha scaricato con Tangentopoli gli amici socialisti, è stata un’operazione di grande tempismo (…).”<br /><br />Orami la decisione è presa: si va in campo. E Berlusconi, pur di farlo, accetta il diktat delle banche creditrici (la Commerciale, La banca di Roma, il Credito Italiano) che, il 5 ottobre ottengono che il timone della Finivest passi in altre mani, in quella di Franco Tatò. <br /><br />L’informazione in tasca, la libertà in pugno.<br /> <br />Come sarà palese in seguito, nel secondo semestre del 1993 Berlusconi è totalmente assorbito nella preparazione della sua creatura politica. Ma lui smentisce: “Non ho alcuna intenzione – sostiene – di promuovere movimenti di opinione, di fare lobby, non sono disposto a entrare in politica.” Poi, sabato 25 settembre, convoca ad Arcore i direttori delle testate Mondadori e delle emittenti tv e spara: “Ho studiato i problemi dell’Italia in termini aziendali: in appena due anni potrei risistemare tutto (…). Noi pensiamo che il cambiamento non può risolversi rimandando al potere gli uomini del passato.” Dopo di che, invita i presenti ad opporre “un muro contro muro” nei confronti dei giornali della concorrenza. L’unico a dire no è Andrea Monti (di “Panorama”), che ribatte di non voler cambiare linea politica. Due settimane dopo il cavaliere rilascia una nuova intervista ad “Epoca”, settimanale di casa. Intervista che mostra non poco la doppiezza dell’uomo. “L’informazione – afferma – è un bene prezioso, un bene comune anche quando la proprietà è di un privato (…). A maggior ragione ora che ho scelto di impegnarmi in una battaglia di libertà. Noi non abbiamo giornali-partito (…). Ai direttori dei telegiornali Fininvest e dei settimanali Mondadori ho sempre garantito – come l’ho garantito a Montanelli, finché sono stato il suo editore – il massimo di libertà.” Dove sta la doppiezza? In questo. Circa dieci anni prima (nel 1983), il cavaliere aveva già dato prova della sua democratica visione del problema. La cosa emergerà con chiarezza nel corso delle udienze preliminari del processo a Dell’Utri del 31 marzo e del 1° aprile 2003, che i giudici di Palermo tengono nell’aula-bunker di Piazza Filangeri, a Milano. Si tratta di intercettazioni telefoniche effettuiate il 27 agosto 1983. Craxi, presidente del Consiglio dal 4 agosto, telefona a Berlusconi per lamentarsi di un articolo del “Giornale”, che gli dava del “guappo” e di una foto di Spadolini, riferita alla prima seduta del Consiglio dei Ministri convocata, invece, dal nuovo premier. Berlusconi si arrabbia e rassicura Craxi: “Adesso basta, a questi gli taglio i fondi. Vado al ‘Giornale’ e batto i pugni sul tavolo. E se Indro fa le bizze lo prendo a calci in culo.” Poi telefona al condirettore Biazzi Vergani e, riferendosi al leader Psi, gli raccomanda: “Dobbiamo tenercelo buono. Craxi tra poco ci farà avere le concessioni per le Tv”, oltre a un altro favore che non può essere riferito telefonicamente. E conclude: “Per ora a Montanelli non dire che ti ho chiamato.” Come racconterà anni dopo Federico Orlando, in quel 1993, Berlusconi, scavalcando Montanelli fa scrivere da Antonio Martino (futuro deputato forzista, nonché ministro della Difesa) articoli critici contro De Benedetti. A perorare la sua discesa in campo chiama Giuliano Urbani. Berlusconi si infuria perché – nella campagna elettorale per le amministrative – il quotidiano osa critica Illy, candidato a Triste per il centro-sinistra. La reazione non è dettata da un improvviso voltafaccia, ma da motivi più venali. Questione di soldi. “La critica del ‘Giornale’ a Illy – spiega Orlando – sarebbe costata alla Fininvest 8 miliardi di pubblicità.” Nella sua verve, Berlusconi impone come collaboratori del giornale Gianstefano Frigerio, Maurizio Prada (rispettivamente segretario regionale e segretario cittadino della Dc), nonché il commercialista socialista Pompeo Locatelli. Tutti e tre arrestati nel corso di Tangentopoli. Ma non solo. Berlusconi è in pressing sul duo Orlando-Montanelli per farsi scrivere un fondo a difesa delle sue scelte politiche. L’articolo che Montanelli manda addirittura ad Arcore (con copia per Confalonieri) è double face: da una parte critica senza mezzi termini la scelta berlusconiana, dall’altra traccia dell’imprenditore un ritratto che definire encomiastico è una bazzecola. “Certamente – scrive l’anziano giornalista – anche Berlusconi avrà i suoi difetti e le sue colpe. Ma un soldo che è un soldo allo Stato non lo ha mai chiesto, un lavoratore che è uno in cassa integrazione, cioè al contribuente, non lo ha mai accollato. La grande impresa televisiva, nella quale tutti gli altri prima di lui erano falliti, l’ha costruita e condotta al successo con le sole forze ed a proprio esclusivo rischio, senza chiedere aiuto a nessuno. Ed infine, nonostante tutto quello che il pool Mani Pulite ha fatto per incastrarlo – ce ne siamo accorti tutti, ce ne siamo accorti – Berlusconi è uno dei pochissimi imprenditori indenni da tangenti e mazzette. Perché è più onesto degli altri, o soltanto più abile? Non lo so. Fatto sta che tutte le indagini svolte contro di lui e contro gli uomini a lui più vicini si sono sempre concluse, almeno finora, con un ‘non luogo a procedere’.” Ma questo sviolina mento non gli salverà il posto. Il 9 gennaio 1994, dopo un pranzo con il Cavaliere, montanelli comunica ad Orlando che l’indomani lascerà il giornale. Al suo posto arriva Vittorio Feltri, un uomo una garanzia.<br />Giuliano Urbani, intanto, svolge il compitino. Mentre in gran segreto (ma mica tanto…) si lavora a metter su il partito-azienda, allo scoperto si continua a smentire qualsiasi impegno politico del patron. Il 9 novembre, il professore perugino viene intervistato da Gian Antonio Stella, per il “Corriere della Sera”. “Il partito di Berlusconi non esiste.” Afferma candidamente. “Non avrebbe senso. Un partito, poi, proprio ora che i partiti hanno fatto il loro tempo (…). Il partito della Fininvest è una sciocchezza (…). Comunque sconsiglio a Berlusconi di buttarsi in politica.” A questo punto, il giornalista chiede: “Perché non dovrebbe?” e lui risponde: “Ma perché con tre reti televisive non sarebbe una gara alla pari. Come se in America corresse Ted Turner, il padrone della Cnn (…)”. Se lo dice lui…. Inutile puntualizzare che da lì a poco Urbani sarà candidato in ben tre collegi (Piemonte 1, Lombardia 1 e Umbria): verrà eletto soltanto grazie al sistema proporzionale e pochi mesi dopo sarà nominato componente della Commissione Affari Costituzionali e, in seguito, anche ministro della Funzione pubblica e Affari regionali. Intanto, si fa strada un’altra strategia: l’anticomunismo. Utile. Montanelli e Orlando, credendo probabilmente di fare cosa gradita al Capo, aderiscono al Patto di rinascita nazionale, di vago sapore gelliano. Ideato dal cattolico integralista Leonardo Mondadori, partner di Berlusconi e membro dell’Opus Dei, il Patto trova consensi anche a sinistra (Saverio Vertone), ma si rivolge in particolare al mondo cattolico (Rocco Buttiglione) e laico (l’ex filosofo marxista Lucio Colletti). Il 1° dicembre, con grande evidenza il “Giornale” dedica all’evento un titolo esplicativo: “Sarà diffuso oggi il manifesto per l’unità dei democratici laici e cattolici. Appello all’area moderata per evitare un governo guidato dal Pds. L’anticomunismo non può essere affidato solo a Lega e Msi.” Lo stesso Orlando scrive un corsivo intitolato “Uniti contro il comunismo”. Tra l’altro, vi si afferma che “solo un rassemblement di tutti i moderati (…) può garantire il nostro Paese dall’instaurazione di un nuovo regime. E un regime nascerebbe se la coalizione del Pds vincesse le prossime elezioni politiche (…).” <br />Sembrerebbe una completa adesione ai principio berlusconiani. Ma non è così. Gli ideatori pensano più che altro a Mario Segni, non a Berlusconi. E questo scatena l’ira del Cavaliere: Montanelli va cacciato.<br /><br />Intermezzo: altri orfani<br /><br /> Il pentapartito muore. A chi affidarsi? E’ questo anche l’interrogativo della mafia, di Cosa Nostra. Ancora nel 1991 i mafiosi hanno fiutato che qualcosa sta cambiando. “Già nel 1991 – scrive Peter Gomez - quando diventa chiaro che in Cassazione la sentenza del maxi-processo istruito da Falcone verrà confermata, Riina e i suoi cominciano a discutere nuove possibili alleanze politiche. Ce l’hanno con la Democrazia Cristiana che, secondo loro, non ha saputo garantire le assoluzioni come promesso. Ce l’hanno con il socialista Claudio Martelli che, una volta diventato ministro della Giustizia, ha scelto Falcone come direttore degli Affari penali del ministero. Vengono messi in programma i primi omicidi eccellenti. Si comincia a pensare alle stragi.” Intanto, come segnale forte e chiaro, nel marzo del 1992, fanno fuori Salvo Lima, non più utile, non più garante, non più in grado di influire aggiustando processi e modellando equilibri. Poi, si apre l’era stragista della mafia: Falcone, Borsellino. E poi l’attacco in grande stile del 1993 con le bombe a Roma, Firenze e Milano. <br />Cosa vuole la mafia? E’ dalla primavera del 1993 che in seno a Cosa Nostra sono convinti di dover cercare nuovi e affidabili referenti politici. Basta con i soliti, inservibili, tappabuchi della Prima Repubblica. Basta con democristiani e socialisti, che non hanno nemmeno saputo tutelare se stessi. Basta, aria nuova, ci vuole. E ci vuole, soprattutto, un nuovo partito. Un partito di riferimento. Agile, forte, affollato, dentro il quale coltivare interessi e tessere le fila di amicizie e condivisioni. Un partito nazionale. Magari liberale e anticomunista. Al nord sta spopolando la Lega. E al Sud che si fa? Lo stesso. Si mettono su Leghe a tutto spiano. Ne nascono di tutti i tipi. Ma soprattutto populistici. All’hotel Midas di Roma nel ’90 nasce la Lega meridionale Centro- Sud-Isole (diffidata dall’usare quel nome da un’altra “Lega Meridionale” ). Si presenta subito offrendo la candidatura a Vito Ciancimino (che declina) ed a Licio Gelli, che invia un sentito augurio a “quanti si riconoscono nell’ideale di ricostruire un’Italia democratica, onesta, pulita per un suo futuro di prosperoso benessere”. Nello stesso torno di tempo sboccia “Noi Siciliani”, capace di portare un deputato (Nino Scalici) all’Assemblea regionale grazie anche al traino del nome di Teresa Canepa, figlia di Antonio, fondatore, nel 1946, dell’Esercito volontario per l’indipendenza della Sicilia. Sempre all’inizio degli anni novanta spunta la “Lega Sud –Ausonia” controparte, anche nella denominazione, della Lega Nord-Padania, con intenti spiccatamente federalisti, ma non tralasciando il secessionismo. Spuntano poi i vari “Centri di azione agraria” e “Noi Meridionali”, “Uniti per la Puglia” e “Uniti per Matera”, il “Partito del Sud” e l’ “Unione federalista meridionale”, fino a “Uniti per Castrovillari”, a “Noi Borbonici” ed alla “Lega di Azione Meridionale – AT6” (dove AT6 è un acronimo di Antenna Taranto 6) di Giancarlo Cito. Ma, tra il settembre e l’ottobre del 1993, spunta una nuova sigla, “Sicilia Libera”. Una delle tante? Non esattamente. Infatti, è il partito-movimento messo all’impiedi da Leoluca Bagarella. Insomma, direttamente da Cosa Nostra, in prima persona. A dire il vero non tutti sono convinti dell’operazione. Almeno a detta del pentito Nino Giuffrè. Troppi uomini d’onore in quel partito, troppa gente con precedenti penali o con conti in sospeso verso la giustizia. Troppa pubblicità e visibilità. Il progetto stenta a decollare. Provenzano è diffondete. Don Binnu non crede all’iniziativa, neanche lui. Non è mica un alloco, non si fa mica attirare dalle lucciole. Scruta quel che avviene in un’altra parte d’Italia, al Nord. E di movimenti, lì, se ne intravedono. Movimenti interessanti, da seguire con attenzione. “Il Capo dei Capi – scrive Giuseppe D’Avanzo su Repubblica nel 2002-, ora che Riina è in galera, può contare su tre promettenti canali, a credere in Giuffrè. Il primo score da Agrigento e Sciacca verso Milano e si muove da Giovanni Brusca e Salvatore Di Ganci fino a un avvocato già noto alle cronache, Massimo Maria Berruti (già ufficiale della Guardia di Finanza, collaboratore di Berlusconi, ora onorevole di Forza Italia). Il secondo canale arriva fino a Marcello dell’Utri attraverso Vittorio Mangano, ‘stalliere’ ad Arcore. Il terzo è in appalto ai ‘palermitani’ di Brancaccio, i fratelli Graviano, appunto. Tutte le strade, dice sorprendentemente Giuffrè, giungono a Silvio Berlusconi, ‘una persona abbastanza capace di poter portare avanti, diciamo, un pochino le sorti dell’Italia’.” Usando questi canali Provenzano propone al quartier generale milanese le ‘richieste’ di Cosa Nostra, in cambio dell’appoggio politico-elettorale. Le risposte non si fanno attendere e – sostiene Giuffrè – sono positive: “interessava il discorso dei carcerati, il 41 bis…. Abbiamo il problema della revisione dei processi, abbiamo il problema dei pentiti, abbiamo il problema dei sequestri dei beni e sono i discorsi più importanti. Ne resta ancora uno, un certo alleggerimento della magistratura nei confronti degli imputati, nelle condanne diciamo, questa impunità di cui avevamo in precedenza parlato: associazione mafiosa sì, ma niente ergastoli.” Da Milano, abbiamo detto, arrivano buone nuove. La cosa si può fare. Tra gli uomini di Cosa Nostra sbocciano l’ “euforia” e l’ “ottimismo”. La nuova linea strategica la detta lo stesso Provenzano a Giuffrè: “Amu a vutari Forza Italia.” E Giuffrè puntualizza: “Si trattava di Forza Italia. Provenzano ci disse di appog¬giarlo. La direttiva di votare questo nuovo partito, secon¬do quello che mi disse, era col¬legata alla trattativa per risol¬vere i problemi che avevamo in quel momento, dai conti¬nui arresti agli ergastoli, dal carcere duro al sequestro dei beni. Sosteneva che nel giro di qualche anno avremmo ri¬solto tutto, e che con Forza Ita¬lia eravamo in buone mani”. Fece dei nomi in particolare? - chiedono i giudici. “Quelle persone che già era¬no in contatto con Cosa no¬stra, come Marcello Del¬¬l’Utri”. Il nome di Dell’Utri non è la prima volta che viene fatto. Già alla fine del 1993, il pentito Pietro Ilardo, poi ucciso nel 1996, negli incontri con il colonnello Michele Riccio, aveva parlato di Marcello Dell’Utri come del “contatto stabilito da Bernardo Porvenzano con un personaggio dll’entourage di Berlusconi”. Un contatto che aveva dato assicurazioni che ci sarebbero state iniziative giudiziarie e normative più favorevoli e anche aiuti a Cosa Nostra nell’aggiudicazione degli appalti e dei finanziamenti statali.” Lo stesso tipo di rapporto (“aggancio” lo chiamano) hanno confermato, anche di recente, ai giudizi di Firenze che indagano sulle stragi occulte del ’93, Giovanni Brusca e Gaspare Spatuzza, pentiti eccellenti di Cosa nostra, tanto che a Palermo, i magistrati stanno valutando se riaprire i fascicoli archiviati nel 1998 a carico dei due politici del Pdl. In cambio della referenzialità politica, ovviamente, niente più stragi, ammazzamenti, bombe come quelle a Roma, Firenze o Milano. O quella, mai esplosa, davanti allo stadio Olimpico, sempre a Roma. E poi, mai più a braccetto coi candidati alle elezioni. Mai più cene pantagrueliche con candidati, amici, amici degli amici, coppole e brillantina, signore ingioiellate e santini in mano ai picciotti. Tutto questo non andava più. Discrezione, ci voleva, ché i giudici ormai avevano le antenne. E tutto viene eseguito secondo le istruzioni. Tranne qualche piccola imprudenza. Quando siamo proprio a ridosso delle elezioni politiche del 27-28 marzo 1994. Esattamente il 4 febbraio, un principe, uno di quei principi della cosiddetta nobiltà nera romana, amico della Massoneria e di Gelli in persona e con un blasone lungo quanto l’elenco telefonico, di nome Domenico Napoleone Orsini. Bene, il principe Orsini da qualche tempo ha preso una sbandata per la Lega di Umberto Bossi, tanto che ne ha una fondata pure lui: “Lega Italia federata” si chiama. Che ha anche ospitato una sera il leader della Lega in un salotto gremito di belle signore, giornalisti e uomini d’affare e di politica. A Roma. Nella Roma ladrona. Quel fatidico 4 febbraio, orsini comincia abbastanza presto a telefonare agli amici. Abbastanza presto per un principe, s’intende: le 10,50. A quell’ora – dicono i tabulati - chiama Stefano Tempesta, un leghista vicino al partito di Bagarella “Sicilia Libera”. Non è dato sapere di cosa parlino. Ma, nel pomeriggio, altre telefonate corrono tra Nord e Sud dello Stivale. Alle 15,55 Orsini chiama Tullio Cannella, uomo di Bagarella, il più presentabile, a quel momento, di “Sicilia Libera”, quello che, da pentito, nel 2001 parlerà dei contatti tra Marcello Dell’Utri e i Graviano, riferendo episodi di sei anni prima, cioè del 1995. I due, Orsini e Cannella, parlano. Probabilmente di politica. Probabilmente in vista di qualche accordo. La sensazione – considerati anche i contatti successivi, nel di quella giornata – è che Orsini sia un a sorta di mediatore. Alle 16, 14 sempre Orsini chiama la sede di Palermo di “Sicilia Libera”. Alle 18,43 l’attivissimo Orsini – evidentemente in possesso di notizie rilevanti provenienti dalla Sicilia – chiama Arcore, parla con Silvio Berlusconi. Subito dopo, fa squillare il telefono di Marcello Dell’Utri. Altra chiacchierata. Alle 19,01, dopo avere chiuso con Dell’Utri, richiama Stefano Tempesta, il leghista amico dei siciliani di “Sicilia Libera”. Tempesta non c’è? O servono altri chiarimenti? Non si sa, fatto sta che una nuova telefonata raggiunge il leghista alle ore 19,20, a farla sempre Orsini, il mediatore, si direbbe. Punto. La storia finisce qui. O meglio, inizia qui. Da lì a poco, “Sicilia libera” scomparirà. Forza Italia sarà presente e forte in Sicilia, accogliendo i più presentabili del disciolto movimento bagarelliano. Lo stesso faranno buona parte delle altre leghe meridionali: o scompariranno, anche come sigle autonome, ed i loro uomini confluiranno in Forza Italia, o si alleeranno con il “Polo delle Libertà” (che al Sud, invero, si chiamerà “Polo del Buongoverno”) oppure resisteranno, ma avranno vita magra e difficile: alle elezioni, intorno allo 0 virgola. Ma c’è di più. Alle 18,11 del 19 marzo, quando mancano dodici giorni alle elezioni, gli inquirenti intercettano – tra molte – una telefonata all’utenza telefonica 091.6882…. tra il massone-mafioso Pino Mandalari (ex commercialista e socio di Totò Riina), sotto inchiesta, e Giovanni Ferlito. Questi chiama Mandalari, tra l’altro attivista del neopartito forzista e fondatore di una sua sezione a Palermo. Ecco il dialogo, tratto dal libro L’orgia del potere di Mario Guarino:<br /><br />- Ferlito: In questo monmento ti ho disturbato?<br />- Mandalari: No, no, Giovanni, domani c’è Silvio a Palermo!<br />- Ferlito: Sì, domani c’è Silvio, tu cobn lui ti sei visto?<br />- Mandalari: Sì, sì, sì!<br />- Ferlito: Eh?<br />- Mandalari: Sì, già precedentemente.<br />- Ferlito: Vi siete visti già?<br />- Mandalari: Sì, sì!<br />- Ferlito: Quindi tutto predisposto. Hai parlato pure di me… no?<br />- Mandalari: Sì… della tua situazione, sì.<br />- Ferlito: Come?<br />- Mandalari: Lui mi ha detto che appena possibile ti scriverà una lettera.<br />(…)<br />- Ferlito: No, dico con Silvio vi siete incontrati qua a Palermo?<br />- Mandalari: No, no, non è sceso… domani scende, stasera arriva lui… ci siamo incontrati fuori…<br />- Ferlito: Ah, fuori? Vi siete incontrati fuori?<br />- Mandalari: Sì, sì!<br />- Ferlito: Quindi di me ne hai parlato… va bene.<br />- Mandalari: Certo! E lui mi ha detto… appena possibile… appena fionisce tutta questa baraonda gli scriverò.<br />- Ferlito: Io, io gli ho detto… io gli ho mandato un pacco da 16.<br />- Mandalari: Sì, me lo ha detto, sì, sì.<br />- Ferlito: Lo sapeva lui?<br />- Mandalari: Sì, esatto, sì.<br />- Ferlito: Va be’, comunque io rinnovo i migliori auguri a te e…<br />- Mandalari: Grazie, grazie., Gianni, ‘u frate, ti ringrazio. <br /> <br />Restano alcuni interrogativi. Mandalari e Berlusconi si sono incontrati davvero il 20 marzo? E , ancora, cos’è questo “pacco da 16”, cosa conteneva vista che le feste natalizie sonopassate da un pezzo? Qualcuno sospetta… Quasi un anno dopo, il 25 gennaio 1995, Vincenzo scarantino, coinvolto nella strage di Via D’Amelio, enlla quale morirono Borsellino e gli uomini della sua scorta, rivelò qualcosa di interessante, che il quotidiano la “Repubblica” pubblicò: “Dopo aver racontato (ai giudici) i dettagli della preparazione della strage, Scarantino ha fatto il nome di Berlusconi al quale, secondo il pentito, mandavano tanta di quella cocaina (…) che Ignazio Pullarà mi riferì che gli mandava due chili di cocaina ogni 20 giorni-un mese (…). Per le feste Berlusconi mandava 50 milioni alla “famiglia” di Santa Maria del Gesù.” Che era, poi, la famiglia mafiosa di Vittorio Mangano, a capo della quale c’era Pippo Calò. Alle opesanti acuse di Scarabntino, Berlusconi replicherà con ironia: “Sì, è vero, mi mandavano anche dieci cannoni, quattro carri armati e, naturalmente, a mesi alterni, un sottomarino”. Che si sappia, senza querelarlo. Strano, considerato l’alto tasso di suscettibilità dell’uomo, che recentemente ha denunciato sia il quotidiano “Repubblica” per le famose dieci domande, alle quali peraltro lui non si è degnato di rispondere, che quattro gionaliste dell “Unità” per avere scritto dei pezzi contro di lui. Senza contare la denuncia a Pietro Ricca per un innocuo “puffone”, da lui inteso come “buffone”. <br />Ora, mettendo accanto fatti diversi: deposizioni dei pentiti, telefonate, nomi, figure, pacchi, pacchetti e modalità di conduzione, al Sud, della campagna elettorale del 1994 (e delle seguenti), con picciotti di famiglie mafiose che, in città come Palermo, Catania, Agrigento, Reggio, Bari battevano palmo a palmo i sobborghi, santini di Berlusconi e di Forza Italia in mano, mettendo insieme tutto ciò – dicevamo – un’idea di quello che è realmente accaduto ce la possiamo anche fare.<br /><br />La vittoria arride a chi ride<br /><br /> La macchina organizzativa, intanto, è a pieno regime. Il partito-azienda in poco tempo si dota di una sede coi fiocchi, in viale Isonzo, 25, a Milano. Viene costituita l’Anfi – Associazione Nazionale Forza Italia – con presidente Angelo Codignoni, ex responsabile de La Cinq, la fallita emittente del Biscione in Francia. Vengo raccolti 250 milioni di lire, vendendo agli iscritti kit con adesivi, orologi, distintivi, portachiavi. In tutta Italia vengono inaugurati centinaia di circoli di Forza Italia, molto spesso ex fans club del Milan. Coordinatore del nuovo movimento è l’ex ministro missino Domenico Menniti (qualche mese dopo andrà via polemicamente).<br /> Il 18 gennaio 1994, nell’abitazione romana di Berlusconi, in via Dell’Anima, a pochi metri dall’hotel Raphael in cui alloggia Craxi, davanti al notaio Francesco Colistra, nasce il movimento politico denominato Forza Italia. Sono presenti, oltre al piduista presidente Berlusconi, l’ex aspirante piduista e professore Antonio Martino, l’ex generale Luigi Caligaris, il funzionario Fininvest Mario Valducci e Antonio Tajani, sbiadito redattore de “Il Giornale”. Il battesimo della nuova formazione politica, tre giorni avanti, è stato salutato dalla grancassa mediatica delle televisioni e dei giornali berlusconiani, con valanghe di spot e promo, approfondimenti da parte di tutti i conduttori televisivi, dei giornalisti, di personaggi dello spettacolo come Mike Bongiorno, Gerry Scotti, Iva Zanicchi. E poi, secondo il consolidato cliché berlusconian-craxiano, nani, ballerini, saltimbanchi, mangiafuoco, comici di serie B, interviste alle massaie per strada… <br /> Il 26 gennaio, tirato a lucido come un damerino d’antan, Silvio Berlusconi si presenta davanti ad una sua telecamere, la quale, ha per schermo una calza di nylon per ignora per rendere più affascinante e ammiccante il suo volto. Il proclama lanciato agli italiani ha un titolo tanto banale quanto diretto “Il mio Paese”. In esso, il Cavaliere si produce nelle più abusate e trite frasi demagogiche (“L’Italia è il Paese che io amo”), alliscianti (“…insieme con i molti italiani che mi hanno dato la loro fiducia”), falsamente innovative: “la vecchia classe politica italiana è stata travolta dai fatti e superata dai tempi. L’autoaffondamento dei vecchi governanti, schiacciati dal peso del debito pubblico e dal sistema del finanziamento illecito dei partiti (…). Ciò che vogliamo offrire agli italiani è una forza politica fatta di omini totalmente nuovi….” Vi sono parti smaccatamente ruffiane: “Vogliano un governo e una maggioranza parlamentare, che sappiano dare adeguata dignità al nucleo originario di ogni società, alla famiglia, che sappiano rispettare ogni fdede e che suscitino ragionevoli speranze per chi è più debole, per chi cerca un lavoro, per chi ha bisogno di cure, per chi, dopo una vita operosa, ha diritto di vivere in serenità. Un governo e una maggioranza che portino attenzione e rispetto all’ambiente, che sappiano opporsi con la massima determinazione alla criminalità, alla corruzione, alla droga. Che sappiano garantire ai cittadini più sicurezza, più ordine e più efficienza.” Non male, come blandizie. Blandizie precoci. E non è difficile andare a scorgere le contraddizioni (come il riferimento alla lotta contro la criminalità). Ma il messaggio ‘buca’ tv e coscienze. Gli italiani gli danno fiducia. Alle elezioni del 27 e 28 marzo iol colpo gobbo di Berlusconi riesce in pieno: Forza Italia diventa il primo partito e lui il Primo ministro. In effetti, per gli italiani i nomi nuovi sono tanti. Almeno, per gli italiani (e sono la stragrande maggioranza) che non conoscono la nomenclatura della Fininvest. Ben quindici sono i suoi dipendenti, tra cui i suoi avvocati personali, Vittorio Dotti e Cesare Previti, e parecchi quelli a vario titolo in affari con Publitalia, la concessionaria pubblicitaria della Fininvest. Il presunto ‘nuovo’, tante volte evocato e brandito in campagna elettorale, svanisce appena nasce il nuovo governo. Vi fanno parte Lamberto Dini, super boiardo già ai vertici di Banca Italia; il professore universitario, da anni volto presentabile ed intellettuale di Alleanza Nazionale, Domenico Fisichella; Clemente Mastella, ex braccio destro di Ciriaco De Mita; il confratello piduista Publio Fiori (ex Dc, passato ad AN); il fascista barese Giuseppe Tatarella, uno degli inquilini più longevi di Montecitorio; il professor D’Onofrio, anch’egli di provata fede democristiana e vetusto frequentatore della Camera dei deputati; un’altra antica presenza come quella di Alfredo Biondi, avvocato tosco-ligure, liberale, in parlamento dalla quinta legislatura e frequentatore di massoni incappucciati; l’ex socialista craxiano Giulio Tremonti, candidatosi nel Patto Segni e tre settimane dopo il voto saltato sul carro del vincitore… Nella compagine di governo ci sono anche volti nuovi. Cesare Previti, dirigente Fininvest e avvocato personale del Capo; Gianni Letta, ex direttore del quotidiano di centro-destra “Il Tempo”, anche’egli dirigente Fininvest e conoscitore degli ambienti dei Palazzi romani; Giuliano Ferrara, giornalista ambiguo e dalle casacche cangianti, ex comunista, ex socialista, convertitosi al berlusconismo d’assalto, nonché – come dichiarerà egli stesso – iscritto nel libro-paga della CIA. Ferrara è stato chiamato al neo costituito Ministero per i rapporti con il Parlamento senza essere nemmeno eletto. Che gliel’abbia ritagliato (abbondantemente) su misura, il ministero? Vi è poi il vicino di casa di Berlusconi, Roberto Maria Radice, uno con le mani in pasta nel business dei rifiuti: diventerà ministro dei Lavori pubblici. Tra le file di Forza Italia, poi, abbondano i riciclati. Troviamo Beppe Pisanu, assiduo frequentatore del potente massone Armando Corona e del faccendiere Flavio Carboni, fatto dimettere a metà degli anni ’80 dalla carica di Sottosegretario alle Finanze in occasione dello scandalo del Banco Andino; l’ex senatore del PLI Carlo Pasini Scognamiglio, poi eletto a presidente del Senato; Tiziana Maiolo, già redattrice del quotidiano “Il Manifesto”; la radicale Emma Bonino; l’ex consigliere Dc del Comune di Palermo Enrico La Loggia; l’ex avvocatessa delle femministe e massona Tina Logostena Bassi. Tra i tanti a mettersi subito in mostra c’è Tiziana Parenti, ex pm di Mani Pulite, presentata come il “fiore all’occhiello del partito”. In predicato di occupare il posto di ministro della Giustizia, la Parenti entra in rotta di collisione con il partito quando si accorge che i disegni del cavaliere non collimano con i suoi sogni e che su quella poltrona andrà qualcun altro. Già pochi giorni dopo le elezioni, l’ex pm dà fuoco alle polveri. L’11 e il 12 aprile, al Grand Hotel Palazzo della Fonte a Fiuggi, il partito trionfatore delle elezioni organizza la prima assemblea dei neo-eletti. Ed è in quel convegno che la Parenti fa partire le prime bordate contro il suo partito. “In Forza Italia – dichiara Titty la rossa, come viene soprannominata – c’è un grave problema di democrazia interna e di organizzazione. Perfino un circolo di tennis si dà uno statuto, delle regole chiare e trasparenti per eleggere il gruppo dirigente (…)”. Ma non si limita a questo. Denuncia “il pericolo di infiltrazione mafiose” e lancia accuse più o meno velate contro i rampanti quarantenni fininvestiani, catapultati dall’azienda a Montecitorio, senza alcuna preparazione politica o senso dello Stato, ma con abbondante credibilità presso il leader. Le sortite della Parenti non trovano orecchie che le ascoltino. Forza Italia viaggia col vento in poppa e dopo il varo del governo (18 maggio) si conferma primo partito alle elezioni europee (14 giugno) con il 30,6% dei voti. A poco a poco, l’ex pm finirà emarginata. Anni dopo uscirà dal partito e nel 2004 entrerà nella Margherita.<br /> A metà luglio, mentre il paese è ancora alle prese con Mani Pulite e la lista di corrotti e corruttori si allunga ed imprenditori, faccendieri e politici continuano a fare la spola tra il carcere e il palazzo di giustizia, avviene il primo colpo di scena. E’ il 14 luglio e l’Italia, a mondiali americani sta giocando contro la Bulgaria. Il duo Biondi-Berlusconi confeziona un decreto (che porta il nome del Guardasigilli) definito tout court “salvaladri”. Sembra ai più una sorta di “cambiale” che Forza Italia deve pagare a quanti – corrotti, piduisti, massoni, mafiosi, ladruncoli di palazzo e di regime, tangentisti e papponi – l’hanno votata e fatta votare. Prima che venga ritirato a furor di popolo (mentre Ferrara dichiara che se il decreto verrà respinto il governo andrà a casa e Sgarbi definisce “assassini” i magistrati), dalle carceri escono centinaia di detenuti, compresi gli ex ministri Giulio Di Donato e Francesco De Lorenzo. Le tv del capo si scatenano a coprire la vergogna. La gente è basita, non capisce. Capirà? Non tanto, non ancora… <br /> <br />CENNI BIBLIOGRAFICI<br /><br />- Abate, L., “L’Espresso”, 21.10.2009;<br />- Barbacetto, G., Gomez, P., Travaglio, M., Mani pulite, Editori Riuniti, Roma, 2002;<br />- Barbacetto, G., Gomez, P., Travaglio, M., Mani sporche, Chiarelettere, Milano, 2007;<br />- Barbacetto, G., in http://www.altrestorie.org/download.php?view.184 (La nascita di Forza Italia)<br />- Caccavale, M., Il grande inganno, Kaos, Milano, 1997;<br />- Calabrò, M. 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(anno in cui Cartagine venne distrutta da P. C. Scipione Emiliano), terminava qualsiasi discorso con l'esortazione: "Ceterem censeo Carthaginem esse delendam" (Inoltre reputo che Cartagine debba essere distrutta). Attenzione: la frase veniva posta alla fine di qualsiasi discorso. Qualsiasi. Che si parlasse di opere pubbliche o di moralità, di acquedotti o di esercito, di fogne, feste pubbliche o accettazione di filosofi greci in città. <br />Quella famosa frase, assurta agli onori di un detto proverbiale nella forma brachilogicamente più diretta "Delenda Carthago", divenne l'esplicitazione di una profonda convinzione strategica (distruggere Cartagine per poter sopravvivere), alla quale piegare ogni esigenza di carattere tattico (rafforzamento dell'esercito, autonomia nei commerci, incentivazione alla cultura, rigida moralità anticorruttrice...).<br />Peraltro, va sottolineato che, secondo quanto affermano gli storici antichi, Catone, quando pronunciò questa frase per la prima volta, tirò fuori da sotto il laticlavio un cesto di fichi, frutti profumatissimi e delicatissimi, provenienti da Cartagine: se, pur essendo così delicati, erano ancora freschi all'arrivo a Roma, voleva dire che Cartagine non era poi così lontana e che quindi Roma non poteva né doveva permettere la sopravvivenza di quella città nemica.<br /><br />Bene, fatta la premessa, ecco la proposta:<br /><br />Propongo a tutti i soggetti sopraelencati di terminare ogni discorso (di qualsiasi genere o natura, in qualsiasi contesto e ambito, in qualunque occasione e sede) con la frase: "Inoltre, poiché Berlusconi è un piduista e sguazza nel conflitto di interessi, non può essere né Presidente del Consiglio a Roma né bidello a Lampedusa." Magari sventolando, nel frattempo, la copia di un fac-simile della sua tessera di iscrizione alla <br />P2 nr. 1816.ALTRiTALIAhttp://www.blogger.com/profile/09128053771899935682noreply@blogger.com1tag:blogger.com,1999:blog-4298065194492417554.post-40168814145679851602010-04-05T00:13:00.000+02:002010-04-05T00:20:45.502+02:00KeepIt Simple, Stupid. Epilogo di un popolo che da quindici anni ha smesso di crescere.<a onblur="try {parent.deselectBloggerImageGracefully();} catch(e) {}" href="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEhz11tX0158YZaceAbUxBFoHRdUo6t0GMaMGqcvDCnVd-xdAcMms5SFD9JWm9LdSP1KE1NjDamlaEEN0rU6GhBvuuMxfVM_NI4ffiupZl3li83RJf3NhchTILn-GA_lTXTZd1z62o_Rxp2Q/s1600/la_bolla-580x327.jpg"><img style="float:left; margin:0 10px 10px 0;cursor:pointer; cursor:hand;width: 320px; height: 181px;" src="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEhz11tX0158YZaceAbUxBFoHRdUo6t0GMaMGqcvDCnVd-xdAcMms5SFD9JWm9LdSP1KE1NjDamlaEEN0rU6GhBvuuMxfVM_NI4ffiupZl3li83RJf3NhchTILn-GA_lTXTZd1z62o_Rxp2Q/s320/la_bolla-580x327.jpg" border="0" alt=""id="BLOGGER_PHOTO_ID_5456409312892130226" /></a><br />Curzio Maltese, “La bolla”, ed. Feltrinelli, 133pag. 13 euro.<br /><br /><br /><br /><br />di Giovanni Puglisi<br />“L’Italia vive da quindici anni in una bolla politica e mediatica, il berlusconismo. Mezza Italia, per la verità: la più felice. Chi guarda la bolla da fuori si preoccupa, si incazza, si strazia per capire come un trucco tanto facile abbia stregato milioni di adulti che non volevano crescere. Chi vive dentro la bolla si sente leggero, avvolto, protetto come un bambino, in un mondo pieno di colori, dove sono scomparse le faccende complesse, noiose. E’ ottimista, per lui nessun problema può sfuggire alla più facile delle soluzioni. Osserva quelli in basso e ride: KeepIt Simple, Stupid”.<br />Cominciano con questa amara constatazione le prime pagine dell’ultimo libro-inchiesta di uno dei più noti editorialisti di Repubblica, Curzio Maltese (nato a Milano, classe 1959).<br />Una spietata analisi, suddivisa in dieci capitoli, con la quale Maltese si interroga sulle ragioni profonde dello stato attuale di un paese, con uno sguardo razionale, cinico non senza l’ironia che contraddistingue il suo modo di scrivere.<br />“Nell’era dell’irresponsabilità, l’Italia è diventata il paradiso delle bolle di sapone”. Il libro si apre raccontando non la storia legata a Berlusconi ma a quella legata a Bernie Madoff, il più grande truffatore della storia, che ha truffato 58 miliardi di dollari. Un signore che usava un motto, con il quale istruiva i suoi venditori, KISS acronimo di Keep it simple, stupid, falla facile, stupido. Negli USA è stato condannato a 150 anni di carcere. Se fosse successo in Italia sarebbe ancora a piede libero e probabilmente siederebbe in Parlamento o al Governo.<br />Questo è anche un libro contro la semplificazione, una impietosa stoccata contro l’idea del governo del fare, cioè l’idea che i problemi complessi, la modernità si possano risolvere con una trovata. “Quando si vende una spiegazione semplice ad un fatto complicato dietro c’è una truffa – sostiene Maltese - come avviene nelle bolle finanziarie, le quali vendono l’illusione che si possano fare i soldi al di là della produzione, semplicemente appunto speculando all’infinito”. E aggiunge: “La bolla politica nella quale siamo immersi non permette agli italiani di vedere quali sono i problemi reali del paese oppure li cancella con un tratto di penna, con uno slogan. Ma i problemi ci sono, rimangono e sono quelli che c’erano prima di Berlusconi.”<br />Maltese nel ripercorre questi ultimi quindici anni getta prima uno sguardo sulla fine della prima Repubblica, con il collasso della sua classe dirigente, che lasciava comunque un paese intenzionato a voltare pagina, poiché attorno alle istituzioni, ai poteri democratici, alla magistratura e alla libera informazione c’era ancora fiducia da parte dell’opinione pubblica. “E’ finita male. –prosegue. - Oggi rimangono i problemi di allora, aggravati, ma è sparita la speranza. E’ subentrata la rassegnazione a convivere con le mafie e le oligarchie criminali, e non ultimo con la corruzione, il declino, l’indecenza della vita pubblica. Il berlusconismo, ha lasciato i problemi a terra, a marcire, e ha convogliato le speranze in una bolla destinata presto a esplodere. La seconda Repubblica è stata una stagione di riformismo immaginario, da una parte e dall’altra. Ormai la maggioranza degli italiani è convinta che, chiunque governi, nulla in concreto cambierà”.<br />Il berlusconismo, in sostanza, non è un’ideologia, non ha dietro un pensiero o un’idea. E’ la proiezione dai teleschermi di ogni italiano di un’illusione, di una bolla. E’ la proiezione mentale di un affarista miliardario senza scrupoli che scende in politica per difendere con ogni mezzo le proprie ricchezze accumulate, senza spiegare la loro provenienza, ma esercitare liberamente attraverso di loro un potere economico, politico e mediatico senza precedenti nella storia d’Italia e a cui tutti devono assoggettarsi, che siano uomini, poteri, istituzioni, regole. <br />Tuttavia, secondo Maltese, il berlusconismo non è stato fascismo, ma ha svuotato la democrazia. In maniera sistematica e diffusa, nei palazzi delle istituzioni come nelle teste dei cittadini. Ha snervato il parlamento, la magistratura, la libera informazione, la scuola. <br />“Siamo ridotti come il paese di Macondo, che dovrà un giorno rinominare gli oggetti”. Nel paese di Berlusconi la memoria di quello che è stata la storia d’Italia viene cancellata in un eterno fare e disfare, abolendo nell’opinione pubblica la distinzione tra vero e falso. Basta leggere le versioni manipolate e grottesche sulla resistenza, sul fascismo ed antifascismo. Ha prodotto una perdita collettiva di senso e di memoria.<br />L’egemonia berlusconiana ha significato il trionfo del populismo, che è alla base di ogni fascismo. Abolisce la complessità, vive di certezze, di controllo dell’informazione di teorie semplici. E attribuisce ogni problema a una causa umana, alla presenza di un gruppo di nemici e traditori infiltrati nel sistema e responsabili di ogni problema. Con Berlusconi il populismo diventa una sequela di pogrom contro l’ebreo di turno: gli immigrati, i magistrati indipendenti, i giornalisti disfattisti, gli insegnanti, i “fannulloni”, i cattolici dissidenti ecc. Il suo successo di questo modo di ragionare è confermato attraverso le teorie del complotto, anche in vasti settori dell’opposizione. <br />Sull’ebbrezza di potere di quest’uomo, destinata a provocare più danni, viene letto il suo stato di salute mentale (Psicopatologia di una nazione). L’allarme è lanciato dalla donna che gli ha vissuto accanto per trentanni, Veronica Lario, lascia sgomenti:“Mio marito non sta bene.“Insegue lo spirito di Napoleone, non è un dittatore. Il rischio è che la dittatura arrivi dopo di lui. La dittatura arriva dopo che la democrazia è stata svuotata”. E se la democrazia viene svuotata, come sta succedendo, in altre parole “Muoia Sansone e tutti i Filistei” per condensare il concetto espresso da Massimo Giannini ne Lo statista o alla fine incendiaria a cui pensa il premier nel Caimano di Moretti. <br />Terribili sono poi le analisi, che ne hanno fatte dieci anni fa, due grandi psicoanalisti italiani, Mauro Mancia e Arnaldo Novelletto. Un caso interessante di psicopatologia che va dal narcisismo estremo - egli sostituisce la realtà con una propria visione, che si manifesta con la negazione. Nega tutto ciò che è evidente. Alla negazione è collegata la menzogna – alle tentazioni autoritarie - proiettando per quindici anni in una sinistra “comunista” e “liberticida” che esisteva solo nella sua mente le pulsioni autoritarie, la volontà di prevalere, non nel libero gioco democratico l’avversario, ma nella distruzione con ogni mezzo del nemico. La proiezione raggiunge poi il picco più alto riguardo il sentimento forse più forte provato nella vita da Berlusconi: l’invidia. “E’ ricchissimo, celebre, osannato - prosegue Maltese - ma incarna tutte le invidie tipiche del borghese piccolo piccolo. E’ invidioso di molti: di chi è più bello, più alto, più colto, di chi ha più capelli e di chi non ha bisogno di potere o danaro per conquistare una donna.” “Vive un complesso di inferiorità spaventoso, compensato da deliri da megalomane”, era la sintesi di Mancia. Sentimento che raggiunge il parossismo nei vertici internazionali (gli esempi ormai si sprecano). <br />Tuttavia, il “non regime” di Berlusconi sarebbe riuscito - secondo Maltese - laddove hanno fallito i fascismi, nonostante i lager e i gulag: l’eliminazione totale dalla scena degli intellettuali, cioè di coloro che pensano autonomamente da un interesse costituito, chi esprime un pensiero autonomo. “Ma in Italia il pensiero autonomo non esiste, è al servizio di qualcosa”. La sola parola intellettuale nell’Italia contemporanea è diventata ormai un insulto. “La figura dell’intellettuale che incide sulla realtà come Pasolini, Moravia, Eco, è ora una figura in ombra sostituita da personaggi mediatici, televisivi, spesso superficiali che non fanno riflettere sulla realtà, ma semplicemente creano un serie di club di seguaci, come se fossero delle rock-star.”<br />La paga del consenso Maltese ci elenca con dovizia di particolari che chi vota Berlusconi sa che non gli faranno dei controlli, infatti ogni volta che Berlusconi va al governo il tasso di evasione fiscale sale immediatamente mentre le entrate fiscali crollano. “l’Italia ha un’evasione fiscale che è più del doppio della media europea, che sottrae allo Stato ogni anno 150 miliardi di euro”. E la politica dei condoni non fa che aumentare questo disastro. In Italia chi paga le tasse è prevalentemente il lavoratore dipendente per avere dei servizi scadenti, chi non le paga le paga meno che nei paradisi fiscali. “In altre parole l’Italia è diventata il più grande paradiso fiscale del mondo. Per chi ci sa fare, s’intende”.<br />Se da un lato per i furbi è il trionfo, il rompete le righe, il bengodi, dall’altro, sogni e speranze vengono distrutte. Come le storie dei ragazzi del movimento studentesco dell’Onda (La rabbia dei miti), o come la storia, magnifica e orrenda di giovani professori come Massimo Marchiori (Polli da spennare), un trentenne del dipartimento di matematica di Padova che ha cambiato la vita di miliardi di persone ma che vive con uno stipendio di duemila euro. Uno spaccato di com’è ridotta l’Università italiana, una sorta di luna park degli orrori e l’incontro con quella perfetta a venti chilometri dal confine.<br />Sogni e speranze distrutte dei tanti lavoratori dei call-center (Laura che non si chiama Laura), il capitolo dedicato sui giovani che pagano il prezzo più alto ai problemi del paese. La storia della lotta dei precari della ATESIA, un grande call-center alle porte di Roma. Laura è una delle ragazze che rispondono alle nostre chiamate con un nome falso. Dietro queste risposte meccaniche ci sono le vite umane, vite di giovani, alcuni non più tanto giovani che hanno bruciato le proprie speranze. Sono entrati in un call-center per mantenersi agli studi ma poi sono rimasti lì per tanti anni senza diritti, senza uno stipendio decente. La grande bugia della flessibilità si è ridotta a questo, cioè a una forma di schiavizzazione del lavoro.<br />E poi le grandi bufale dei lavori pubblici (Una campata per aria) – come l’ospedale San salvatore dell’Aquila, il passante di Mestre, i rifiuti a Napoli, l’Alta Velocità, la Tav in Toscana, la Salerno-Reggio Calabria, il ponte sullo stretto e tante altre - realizzate dalla più grande impresa di costruzione, come la Impregilo, a cui il premier ha affidato il destino del paese e sulla quale non si possono fare inchieste giornaliste.<br />Un capitolo, però lo riserva al maggior partito di opposizione (Gli alibi della sinistra), responsabile di non essersi mai posto il problema di battere Berlusconi, perché occupato a non farsi sostituire da altri dirigenti di sinistra. Non è riuscito a fare la legge sul conflitto di interessi, ma per quindici anni ha conservato gli stessi dirigenti, ha cambiato simboli, fondato, nel frattempo, tre o quattro partiti diversi. In sostanza, la nomenclatura del centro-sinistra avrebbe trovato in Berlusconi, un elemento di autoconservazione. <br />Il libro si conclude con una riflessione amara sul fallimento di una generazione di giornalisti della carta stampata, “l’Italia non è un paese dove c’è grande libertà di stampa e a noi è andata male. Io sono stato molto fortunato a fare un mestiere molto bello, il giornalista della carta stampata, un mestiere che è destinato a finire”. Ma cede il testimone lanciando un messaggio di speranza a tutti gli aspiranti giornalisti “Ora tocca a voi raccontare l’Italia agli italiani. In futuro ci saranno altre forme di comunicazione, Internet per esempio, dalle quali io non sono particolarmente affascinato perché non è la mia forma di comunicazione anche se saranno splendide”. <br />Ma occorre adesso stare attenti, quando Berlusconi sarà finito, occorrerà fare i conti con un’eredità pesante, come accade sempre quando esplode una “bolla”.ALTRiTALIAhttp://www.blogger.com/profile/09128053771899935682noreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-4298065194492417554.post-62337056379130996992010-03-24T00:15:00.000+01:002010-03-24T15:30:28.033+01:00LA CARICA DELLE 5 STELLE di Giovanni Puglisi<a onblur="try {parent.deselectBloggerImageGracefully();} catch(e) {}" href="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEg_eQlEICUc27f0mRF18L8jcHfFXxSX0tNOW2bLI9-z7B9QV2TkMsyS9526-63867b40Ib1OWQB9WIyVjBVyhIEIo5APBQ-Pp-1IyfJptK2RYbcUR7VY4ZTFj0I8bohsdm4Do46lvfcRxiO/s1600-h/24091_1161979190054_1845071796_297247_3691490_s.jpg"><img style="float:left; margin:0 10px 10px 0;cursor:pointer; cursor:hand;width: 130px; height: 97px;" src="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEg_eQlEICUc27f0mRF18L8jcHfFXxSX0tNOW2bLI9-z7B9QV2TkMsyS9526-63867b40Ib1OWQB9WIyVjBVyhIEIo5APBQ-Pp-1IyfJptK2RYbcUR7VY4ZTFj0I8bohsdm4Do46lvfcRxiO/s200/24091_1161979190054_1845071796_297247_3691490_s.jpg" border="0" alt=""id="BLOGGER_PHOTO_ID_5451972819959075122" /></a><br />Padova, 22 marzo. E' un fiume in piena, il comico genovese, che dal palco di Piazza dei Signori – difronte a circa 3000 persone che avevano sfidato un'imminente quanto probabile pioggia - ha proseguito il suo tour elettorale nel Veneto (dopo Padova andrà a Treviso) per presentare i suoi candidati alla Regione, armati di un semplice casco bianco da cantiere e privi di doppiopetto.<br />Ne ha per tutti, Beppe Grillo, sfoderando il suo forbito linguaggio, teso a suscitare l'ilarità divertita degli astanti di tutte le età. Il suo “vaffanculo”, legittimato dalla Corte di cassazione, - spiega - utilizzato nei confronti del Premier (“ormai si intercetta da solo”), dei giornalisti asserviti (“Minchiolini è meglio che rimanga al suo posto, come il famoso confetto lassativo (“alla sera, basta la parola per mandarlo a cagare”), dei parlamentari del “PD meno la elle come Fassino e D'alema”, che siedono in Parlamento da molte legislature, “perché dobbiamo mantenerli per così tanti anni? Che vadano a lavorare”), di un Parlamento (“pieno di ladri, mafiosi e piduisti”), rappresenta (“un grido dell'anima”), a tratti catartico.<br /> Mostra con orgoglio le sue battaglie e i seguaci del movimento. E denuncia la “sparizione” delle 350.000 firme raccolte per un parlamento pulito (che inibiva l'ingresso in parlamento ai condannati per tre volte) e la mancata spiegazione da parte del Presidente del Senato “aveva rifiutato una video conferenza col blog”, del Presidente degli affari costituzionali della Camera Vizzini, “colpito da un avviso di garanzia proprio mentre entravo nel suo ufficio”.<br /> Invoca il ritorno al voto delle preferenze, escluso dalla legge “porcellum” (“è stato un piccolo colpo di stato”) e del parere negativo della Commissione Europea sulla validità delle ultime elezioni politiche. Non si accanisce più di tanto (troppe gliene hanno dette da più parti) su Brunetta, liquidandolo come un “personaggio grottesco”.<br />Vanta il merito riconosciuto per aver presentato le liste per le elezioni regionali in anticipo; e di aver siglato un patto con i suoi candidati laddove, in caso di elezione, la durata del proprio seggio sarà soltanto per una legislatura; ma poi ha finalmente spiegato seraficamente il motivo per cui egli rifiuta di candidarsi: “Perché sono un pregiudicato!” - a causa di alcune condanne per le molte denunce che ha riportato per diffamazione, non ultime per aver definito “zoccole” alcune ministre e parlamentari “si sono sentite diffamate”. La denuncia è diventata la sua seconda pelle e nei “miei giri per le città ho scoperto la denuncia preventiva”.<br /> Evoca il motivo per aver organizzato il V-day: “per denunciare il marcio nella politica (per i molti parlamentari plurinquisiti e condannati) e nell'informazione (con a capo la confindustria e molte testate giornalistiche che ricevono ogni anno i finanziamenti pubblici, anziché investirli nella ricerca e nella scuola)”. Cita l'esempio virtuoso del neonato quotidiano Il Fatto che ha rifiutato i soldi pubblici. <br /> Rimarca l'importanza per il successo ottenuto dell'uso della rete e che ha fatto da apripista, in Italia della proliferazione del social network e le tante iniziative nate spontaneamente (come ad es. il popolo viola, facebook). Il suo blog conta “250.000 visite al giorno per un totale di 2000.000 di visite nei suoi 5 anni di vita”, una pagina che fin da allora vi scrivono tutti, dal premio nobel come Dario Fo all'elettricista, all'anziato pensionato diventato esperto degli ultimi farmaci e più informato dello stesso farmacista.<br />Sulla base di questa esperienza la nascita del movimento a cinque stelle (dove le stelle rappresentano le idee) ha prodotto consiglieri in 32 città d'Italia, quale unica realtà da cui pezzi della società civile si sentono rappresentati; e da iniziative positive ottenute e cita l'esempio di un consigliere di Treviso (con il solo gettone di presenza di 250 euro al mese) che ha realizzato un programma sulla raccolta differenziata senza oneri da parte del comune e a totale carico dell'imprenditore virtuoso che ha avuto dopo il merito di investire sull'energia pulita.<br />Attacca i sindaci come Chiamparino per essersi pronunciato a favore della privatizzazione dell'acqua e non lesina critiche ai tanti comuni diventati SPA e a sindaci diventati amministratori delegati, come il sindaco Pd Zanonato, che anche lui è caduto nella tentazione di giocare in borsa (il riferimento è al tonfo dei fondi affidati dal comune ai Lehman Brothers, costato 4 milioni). Se la politica finisce con l'ingresso dei soldi, le grandi opere, pomposamente annunciate, “non creano lavoro, ma soltanto debito e i soldi serviranno alle mafie.<br />O il nucleare che crea solo scorie e che nessuno sarà in grado di smaltire. E propone una politica di ricostruzione e di ristrutturazione nel territorio piuttosto che alla sua espansione.<br /> L'obiettivo di Grillo in questa tornata elettorale è quello di ottenere l'elezione di almeno un consigliere in regione “per poter mettere allo scoperto ogni intrallazzo che molti governi regionali si rendono protagonisti con gli appalti, le concessioni e le consulenze”.<br />Poi la sua foga oratoria viene improvvisamente interrotta dai persistenti tocchi di campana dalla chiesa difronte “Un saluto all'otto per mille!” e coglie l'occasione per un ammonimento al Vaticano per le sue continue entrate nel merito delle politiche sulla vita e sulla morte.<br />Rimangono pochi minuti perché prendano la parola alcuni suoi candidati , ma il tempo a disposizione è ormai finito e altre città lo attendono.ALTRiTALIAhttp://www.blogger.com/profile/09128053771899935682noreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-4298065194492417554.post-87669766868520835432010-03-23T19:06:00.000+01:002010-03-23T19:09:04.699+01:00Allora uccidetemi, pezzi di merda di Petra ReskiLa mafia contro i giornalisti<br />Attentati incendiari, minacce di morte e calunnie. I giornalisti che scrivono di mafia mettono a repentaglio le loro esistenze e le loro stesse vite.<br /><br />La reporter porta maniche a sbuffo e scarpe con la zeppa, ma anche scalza sovrasterebbe la metà degli uomini presenti nella sala delle udienze. Dal braccio piegato pende una borsetta color lilla, le unghie sono laccate di nero, per braccialetto ha una catenina di plexigas. “Sei troppo elegante oggi!”, le dice un collega. Rosaria Capacchione sbuffa stizzita mentre liscia le pieghe della gonna del suo tailleur.<br />Nella sala udienze di Santa Maria Capua Vetere è in corso il dibattimento per l’assassinio dei sei africani che a settembre 2008 sono stati giustiziati a Castel Volturno da un commando di killer armato di mitra. Gli accusati sono sei affiliati al clan dei casalesi, il clan della camorra di Casal di Principe descritto da Roberto Saviano nel suo libro “Gomorra”. Rosaria Capacchione è stata una delle prime persone a recarsi sul luogo della strage. Con il massacro degli africani i casalesi hanno voluto dimostrare, una volta di più, chi detiene il controllo su questo lembo di terra non lontano da Napoli, dove le montagne vengono divorate dalle cave e dove si è creato un girone infernale zeppo di centri commerciali, parcheggi e prostitute nigeriane che aspettano i clienti tra pezzi di plastica, ferrovecchio e frammenti di vetro.<br />Rosaria Capacchione lavora da oltre vent’anni come reporter giudiziario per il quotidiano napoletano “Il Mattino” nella redazione di Caserta. Sa dove i casalesi riciclano i loro soldi. E anche che amano indossare calze di Brioni color fumo di Londra. Sa quale clan spartisce alleanze e con chi, quale camorrista è amico di quale politico e in che modo la spazzatura si trasforma in oro. L’Oro della Camorra è anche il titolo del suo libro pubblicato nel 2008, in cui documenta accuratamente i reati dei casalesi con note a piè di pagina.<br />Quando a fine dibattimento Rosaria ha una conversazione confidenziale con un avvocato di un boss nel bar del Tribunale, gli si rivolge come ad un bambino impertinente. Vicinissimo a Rosaria c’è una donna, che le sta appiccicata come fa un’amica un po’ curiosa. Ha un piercing al labbro inferiore e non si fa da parte nemmeno quando l’avvocato tenta di bisbigliare qualcosa all’orecchio della reporter.<br />I camorristi un anno e mezzo fa dissero che l’avrebbero fatta pagare alla giornalista per le sue scoperte, da allora viene scortata passo passo da due poliziotti. Oggi ci sono un brizzolato uomo palestrato e la donna con il piercing. Quando Rosaria lavora in redazione le guardie del corpo aspettano in strada. E’ raro che Rosaria lasci la redazione prima della mezzanotte, quest’oggi vuole scrivere ancora due articoli sui parenti delle vittime.<br />Il suo ufficio è disadorno in modo quasi fratesco, la scrivania dà su un armadio per gli atti. Vi è appeso un foglio con «informazioni utili per i colleghi giornalisti in attesa di un colloquio con Rosaria Capacchione». «La C. dorme fino a tardi e inizia a lavorare a pieno ritmo solo nel pomeriggio», dice uno dei consigli. O «la C. non deve essere fotografata di profilo» o ancora: «la C. non ama essere contraddetta». Quando Rosaria Capacchione fu minacciata e poi messa sotto scorta, divenne ella stessa oggetto di inchiesta. Ogni volta che la trasmissione di approfondimento politico di Rai 2 “Annozero” parla delle bande dei Casalesi, Rosaria Capacchione viene intervistata mentre siede alla scrivania della sua redazione e fuma una sigaretta dietro l’altra.<br />«Ho un concetto laico della mia professione», dice freddamente Rosaria. Non sta facendo la guerra alla mafia, scrive semplicemente quello che sa. E non è poco, dopo vent’anni. Spesso sa anche più dei magistrati stessi, molti dei quali qui lavorano solo fino a quando non riescono a farsi trasferire da un’altra parte. «Si dice che io sia cattiva», dice Rosaria. «Ma non faccio nient’altro che informare, mettere insieme elementi». E proprio di questo ha paura la camorra.<br />Rosaria vive sola, non ha figli ma ha cinque fratelli, che con cognati, cognate e nipoti vegliano su di lei come una famiglia di leoni. Nessuno si è mai permesso di dirle “smettila”. Nè i suoi fratelli, nè gli amici e nessuno dei suoi colleghi, «perchè altrimenti li avrei cancellati dalla lista», dice Rosaria.<br />Recentemente le sono entrati i ladri in casa. Non hanno rubato niente, solo un premio ricevuto per i suoi servizi antimafia. Il furto è un messaggio chiaro: se solo volessimo noi potremmo. All’assemblea di condominio uno dei proprietari si è preoccupato per la possibile perdita di valore degli appartamenti per via della vicina di casa minacciata dalla mafia.<br />«Un giornalista minacciato dalla mafia è soprattutto una cosa: solo!», dice Alberto Spampinato, fondatore dell’”Osservatorio permanente sui cronisti italiani minacciati e sotto scorta e sulle notizie oscurate con la violenza”. Spampinato è redattore per l’agenzia di notizie Ansa e fratello di Giovanni Spampinato, il giornalista ucciso dalla mafia nel 1972. In Italia sono stati uccisi dalla mafia negli ultimi 30 anni 13 giornalisti.<br />I colleghi sono i primi a colpire alle spalle un reporter minacciato dalla mafia, dice Alberto Spampinato. C’è sempre qualcuno pronto a dimostrare che un giornalista scrive falsità sulla mafia. Ogni volta il giornalista minimizza le conseguenze delle minacce, mettendole in conto a discapito del vantaggio di diventare famosi. Il collega è stato «imprudente», per vanità ha spezzato quel patto silenzioso che consiste nel nascondere certe notizie. Soprattutto nell’Italia meridionale sono ancora numerosi i quotidiani disposti a fare da portavoce ai boss.<br />«Chiunque scrive di mafia lo fa a proprio rischio e pericolo», dice Alberto Spampinato. Negli ultimi tre anni in Italia sono stati minacciati dalla mafia più di duecento giornalisti, non solo con frasi accese o con velate minacce di morte, ma anche in modo assolutamente legale: con querele per diffamazione e richieste danni astronomiche, tese a intimidire i giornalisti. O, come ritiene il politologo Claudio Riolo, «colpendone uno per educarne cento».<br />Riolo ripercorre la kafkiana storia processuale degli ultimi 15 anni. Nel 1994 scrisse un articolo per una rivista antimafia sull’avvocato penalista Francesco Musotto, l’allora Presidente della Provincia di Palermo. Nel processo contro gli autori dell’attentato al magistrato Giovanni Falcone era riuscito a rappresentare contemporaneamente vittima e difensore: da una parte Musotto rappresentava la provincia di Palermo in veste di parte lesa e dall’altra difendeva uno dei boss mafiosi accusati. Lo strano caso dell’avvocato Musotto e Mister Hyde, titolava l’articolo di Riolo. A cinque mesi di distanza dalla pubblicazione Musotto intentò una richiesta danni richiedendo 350.000 euro di risarcimento. Il processo di primo grado durò sei anni, alla fine il politilogo fu dichiarato colpevole e condannato a pagare la somma di 70.000 euro. Nel processo civile, a differenza di quello penale, la sentenza è immediatamente esecutiva. Il giudice dispose quindi il pignoramento del quinto dello stipendio del politologo, pignoramento valido anche per il periodo della sua pensione, che era ormai imminente.<br />La condanna è stata riconfermata in entrambi i gradi successivi di giudizio e al termine del processo, durato 12 anni, Riolo è stato giudicato colpevole anche in cassazione. Così è successo qualcosa che non ha precedenti: Riolo ha fatto ricorso alla Corte Europea per i Diritti dell’Uomo e ha vinto. Nel corso del processo «Riolo contro l’Italia» è stato ritenuto colpevole lo Stato per non aver protetto la libertà di informazione. L’articolo sull’avvocato mafioso non è stato una calunnia, ma piuttosto una libertà di opinione permessa negli stati democratici e dimostrata dai fatti. Nell’ottobre dello scorso anno l’Italia è stata condannata a pagare 72.000 euro di risarcimento. Poichè però il verdetto europeo non annulla quello italiano, ma lo integra soltanto, ora lo Stato italiano deve accollarsi i costi per la presunta calunnia ai danni dell’avvocato dei mafiosi. Scherzi della giustizia. Ma c’è una cosa che nemmeno i giornalisti italiani che si occupano di mafia hanno ancora visto: pagine cancellate in un libro che tratta di mafia. Per questa ragione anche i media italiani hanno parlato diffusamente del fatto che il mio libro Mafia. Von Paten, Pizzerien und falschen Priestern [“Mafia. Di padrini, pizzerie e falsi sacerdoti.”, n.d.t.] in Germania può essere pubblicato solo censurato. Spartaco Pitanti, gastronomo di Erfurt e Antonio Pelle, albergatore di Duisburg, grazie a un provvedimento d’urgenza sono riusciti a fare annerire i passaggi che li riguardano.<br />«L’autrice cita nomi molto noti, che non soltanto emergono da atti di indagini sia della polizia tedesca che italiana, ma anche da atti giudiziari e da numerose cronache giornalistiche. Se non possiamo parlare di persone sospette la gente dovrà continuare a ignorare il problema, il massacro di Duisburg dovrà passare come un caso isolato della storia di cui ci si dimenticherà in fretta per ricominciare a dedicarsi a discorsi frivoli e a questioni prive di importanza. Speriamo solo di non doverci risvegliare bruscamente.». Questo ha scritto il magistrato nazionale antimafia Vincenzo Macrì nella prefazione al mio libro. Nel frattempo il mio libro è stato pubblicato anche in Italia sotto il titolo Santa Mafia. Uno dei suoi primi lettori è stato Marcello dell’Utri, il senatore di Forza Italia e braccio destro del Presidente del Consiglio italiano Berlusconi, condannato in primo grado a nove anni per concorso esterno in associazione mafiosa. Dell’Utri ha immediatamente intentato una causa contro il mio libro.<br />Poco dopo che le pagine del mio libro in Germania erano state annerite, Jürgen Roth ha pubblicato il suo libro „Mafialand Deutschland“. Anche nel suo caso immediatamente dopo la sua pubblicazione è stato emanato una provvedimento d’urgenza. Il cameriere Pasquale Serio, che lavorava a Lipsia, ha imposto tramite il tribunale regionale di Lipsia l’annerimento delle parti che lo riguardavano. E Domenico Giorgi, un ristoratore di Erfurt socio in affari del mio querelante Spartaco Pitanti, nel novembre di quest’anno ha cercato, nello stesso modo, di ottenere una dichiarazione di omissione contro il libro di Roth. Ma è stato tutto inutile, il giudice di Lipsia ha respinto la richiesta.<br />Questo però non ha impedito all’avvocato di Giorgi di inviare minacce di ingiunzione a tutte le librerie tedesche minacciando conseguenze giuridiche nel caso in cui il libro di Roth fosse stato esposto alla vendita. Contemporaneamente i due ristoratori Pitanti e Giorgi hanno citato per danni un giornalista del settimanale L’espresso che nel marzo 2009 aveva pubblicato un articolo sulla mafia in Germania. Il loro legale ha fatto richiesta danni per l’ammontare di 518.000 euro per «calunnia in forma particolarmente pesante». Colpirne uno per educarne cento: l’editore si chiederà, se un libro sulla mafia possa o meno essere pubblicato. Il giornalista, nel suo prossimo articolo, si chiederà se fare nomi veri: chi me lo fa fare? E ancora: come faccio a pagarmi l’avvocato? Francesco Saverio Alessio ha scritto un libro che mette in luce i collegamenti tra la Ndrangheta, la mafia calabrese, la camorra campana e i massoni. Da allora è minacciato, querelato, insultato, intimidito. In occasione di una manifestazione antimafia ha gridato tutta la sua rabbia: «se mi uccidete, voi miserabili pezzi di merda, il nostro libro venderà tre milioni di copie!»<br />Altri giornalisti si salvano con l’ironia. Giacomo di Girolamo è caporedattore della radio locale RMC 101 di Marsala, là dove la Sicilia arriva vicinissimo all’Africa, dove la luce è brillante e le case sono cubi color ocra. E dove ogni due settimane vengono incendiati un bar, una laboratorio, un negozio, perché il proprietario non ha pagato il pizzo a sufficienza. Giacomo trova il coraggio di andare a riferire l’accaduto e la sua auto viene danneggiata, ci sputano sopra, la aprono con la forza. Da allora va in bicicletta, tre biciclette gliele hanno già rubate. Una sera si è trovato davanti qualcuno che gli ha farfugliato qualcosa. «Era buio e stava piovendo», racconta il giornalista, «ho capito solo che dovevo dargli retta. Ma non il perché.»<br />Un’altra volta invece un fotografo omonimo è stato minacciato al telefono, uno scambio di persona. Ultimamente hanno appiccato il fuoco allo studio legale sopra agli studi radiofonici, evidentemente chi ha appiccato l’incendio ha sbagliato piano. «Considerando questo, sembra andare male alla mafia», dice Giacomo di Girolamo. «Tre intimidazioni e nessuna riuscita bene.»<br />Mette su il primo jingle “Matteo, dove sei?” e annuncia come sempre le ultime notizie su quel boss mafioso Matteo Messina Denaro, che domina la zona di Marsala ed è latitante da 16 anni. Oggi è stato arrestato un clan vicino al boss, costituito da tre ottantenni e due donne. Sul giornale locale il capo della polizia viene complimentato per l’arresto da tutte le personalità della città. «Davvero strano», dice Girolamo, «in un giorno così sembra di essere a una festa di nozze, quando nessuno vuole farsi rimproverare di non aver inviato un telegramma di congratulazioni». Dopodiché annuncia un’intervista con un consigliere comunale, che è assistente regionale alla legalità e, allo stesso tempo, avvocato di un mafioso.<br />«Qui non posso cambiare niente», dice Girolamo. «Ma io devo raccontare, perché nessuno possa dire di non aver saputo».ALTRiTALIAhttp://www.blogger.com/profile/09128053771899935682noreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-4298065194492417554.post-50965826798739388372010-03-19T11:16:00.000+01:002010-03-19T11:19:29.566+01:00Economia & Lavoro VENETO<a onblur="try {parent.deselectBloggerImageGracefully();} catch(e) {}" href="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEhULceLi7vptZQd35-UeQy2kXIEeuJW5Ykj028JkIGCDV67YxV0V-Vrtcv42_ki_R5WbPuLqzOzNdmeqrx3diLStQEdPzvKDUOn_0KRia_E0nYFFNBu5p_qTpphbT9LBCx0uy39_92V9mid/s1600-h/regione-veneto-150x150.jpg"><img style="float:left; margin:0 10px 10px 0;cursor:pointer; cursor:hand;width: 150px; height: 150px;" src="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEhULceLi7vptZQd35-UeQy2kXIEeuJW5Ykj028JkIGCDV67YxV0V-Vrtcv42_ki_R5WbPuLqzOzNdmeqrx3diLStQEdPzvKDUOn_0KRia_E0nYFFNBu5p_qTpphbT9LBCx0uy39_92V9mid/s200/regione-veneto-150x150.jpg" border="0" alt=""id="BLOGGER_PHOTO_ID_5450287490353958978" /></a><br />Congiuntura (III trim 2009)<br />Utilizzo impianti 66,4%<br />Livello ordini -52,9%<br />Livello produzione -48,2%<br />Indicatori (I sem 2009)<br />Turismo arrivi/presenze -2,2% / -0,9<br />Esportazioni/importazioni 18646/14566 (mln euro)<br />Tasso di disoccupazione 4,8%<br />Cig ore autorizzate 51159<br />Prestiti bancari (giugno, var % annua) +0<br />Depositi bancari (giugno, var % annua) +6<br /><br />Ricavi con il contagocce in Veneto. La produzione industriale si è ridimensionata del 18 per cento, praticamente di un quinto, in soli sei mesi. Nonostante le aspettative di una lenta ripresa degli ordinativi, per far fronte alla crisi internazionale le fabbriche venete nel primo semestre 2009 sono corse rapidamente ai ripari contraendo gli investimenti e il fabbisogno occupazionale. A registrare il segno meno sono quasi tutti i comparti del manifatturiero, cui si affida gran parte dell'economia del Nord Est: dalla filiera dei metalli alla meccatronica vicentina. L'unico segnale in controtendenza arriva dall'industria alimentare: la produzione in questo caso è addirittura aumentata. Le esportazioni nei primi sei mesi del 2009 sono scese del 20% con maggiori ripercussioni nei settori di specializzazione regionale a maggiore valore aggiunto, come la meccanica e la produzione di apparecchi elettrici e ottici. Di pari passo con la crisi dell'occhialeria veneta, è stato particolarmente colpito anche il segmento degli orafi, che indirizza oltre la metà delle esportazioni verso l'Asia e gli Stati Uniti: nonostante il raddoppio delle vendite in Cina, i produttori veneti hanno perso un quinto delle loro esportazioni. Nelle imprese con oltre 250 addetti la riduzione dei livelli di attività è stata più intensa, mentre resistono i più piccoli specializzati.<br />Fonte: ilsole24ore.ALTRiTALIAhttp://www.blogger.com/profile/09128053771899935682noreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-4298065194492417554.post-89813324049875577122010-03-18T00:29:00.000+01:002010-03-18T00:33:19.653+01:00UNA NORMA E UNA SENTENZA IN ROSA di Giuseppe Tramontana<a onblur="try {parent.deselectBloggerImageGracefully();} catch(e) {}" href="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEjrOiF9ioHhFafIvKIxnVLK-SpgveIxweGlK4VK7HyexxgM5CVLknXH4C50_MipVYPEWYZCLyhY9mg9dKiZZ8L5utfPrGs8PhFS5EcYrPD-VCbCJqhKWVUMjDBx8mbxiHDdIWHjX7bvnddm/s1600-h/arton14015.jpg"><img style="float:left; margin:0 10px 10px 0;cursor:pointer; cursor:hand;width: 101px; height: 77px;" src="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEjrOiF9ioHhFafIvKIxnVLK-SpgveIxweGlK4VK7HyexxgM5CVLknXH4C50_MipVYPEWYZCLyhY9mg9dKiZZ8L5utfPrGs8PhFS5EcYrPD-VCbCJqhKWVUMjDBx8mbxiHDdIWHjX7bvnddm/s320/arton14015.jpg" border="0" alt=""id="BLOGGER_PHOTO_ID_5449749553407495954" /></a><br />Nelle prossime elezioni regionali i campani potranno indicare non una, ma due preferenze sulla lista, purché la seconda sia a favore di una persona di sesso diverso rispetto alla prima.<br /> <br />Mentre ancora non si sono spenti del tutto gli echi della polemica sulle liste elettorali, una notizia è passata praticamente inosservata, sempre in riferimento alle elezioni regionali prossime venture. Si tratta della sentenza della Corte Costituzionale nr. 4 del 20 gennaio 2010. La sentenza della Suprema Corte ha dichiarato perfettamente costituzionale la norma contenuta nell’art. 4, comma 3 della Legge regionale campana nr. 4 del 27 marzo 2009. Insomma, la norma sulla cosiddetta ‘doppia preferenza di genere’.<br />Di che si tratta? E’ presto detto. Diamo la parola al legislatore campano: “L’elettore può esprimere, nelle apposite righe della scheda, uno o due voti di preferenza, scrivendo il cognome ovvero il nome ed il cognome dei due candidati compresi nella lista stessa. Nel caso di espressione di due preferenze, una deve riguardare un candidato di genere maschile e l’altra un candidato di genere femminile della stessa lista, pena l’annullamento della seconda preferenza”.<br />Chiaro? Nelle prossime elezioni regionali i campani potranno indicare non una, ma due preferenze sulla lista, purché la seconda sia a favore di una persona di sesso diverso rispetto alla prima. In caso contrario, la seconda preferenza viene annullata. Perché una previsione apparentemente così bizzarra. E perché la Corte Costituzionale ne sostiene la validità?<br />Per rispondere a queste domande occorre fare un piccolo passo indietro. Sono abbastanza note le posizione della Corte Costituzionale in materia di ‘elettorato di genere’. Già nel 1995, con la sentenza nr. 422, dichiarò illegittime le norme della legislazione elettorale che introducevano le cosiddette ‘quote’ riservate alle donne. La bocciatura era motivata da un semplice assunto: le stesse quote non si proponevano di rimuovere gli ostacoli che impedivano alle donne di raggiungere certi risultati (nel caso di specie, l’elezione), ma di attribuire direttamente quei risultati medesimi. Insomma, le donne erano trattate in maniera fin troppo privilegiata rispetto agli uomini: non veniva garantita solo l’opportunità di essere eletta, ma direttamente l’elezione, il risultato finale. E ciò mentre, per la Corte, che pur continuava a riconoscere la legge elettorale quale strumento per promuovere la parità di accesso, l’elettorato passivo si configurava come ‘diritto neutro’. In breve, il meccanismo, predisposto in una fase anteriore alla sorgente del medesimo diritto, deve consentire l’uguaglianza dei punti di partenza, delle opportunità appunto, non il conseguimento diretto di risultati di vantaggio.<br />Bene, lo scorso marzo è stata approvata la legge elettorale della Regione Campania con la previsione, sopra evidenziata, di cui all’art. 4 comma 3. Nel giugno 2009 la Presidenza del Consiglio l’ha impugnata, sostenendone l’illegittimità. In verità, il ricorso tocca vari aspetti della legge medesima, ma per comodità, noi affronteremo solo quello riguardante la materia in esame. Il Governo ha sostenuto, infatti, che la ‘doppia preferenza di genere’ non sia solo una norma antidiscriminatoria, ma una ‘azione positiva’ finalizzata a favorire una parte del corpo elettorale (le donne) piuttosto che un’altra (gli uomini), rappresentando quindi un focolaio di diseguaglianza, in quanto, “presumibilmente ispirata alla idea delle ‘quote rosa’”, si risolve “in una evidente menomazione dell’elettorato passivo e di quello attivo”. In particolare, ne sarebbe stato risultato violato l’art. 3 della Costituzione, poiché la norma avrebbe introdotto “una limitazione disuguagliante” nell’espressione del voto per la seconda preferenza. In altri termini – come sottolinea la Corte – “i candidati appartenenti al medesimo genere o sesso sarebbero ‘discriminati e resi disuguali’ nel momento in cui l’elettore esprime la seconda preferenza.” Inoltre, si è assunto violato anche l’art. 51, comma 1, Cost., in quanto la norma impugnata avrebbe previsto un limite di accesso, legato al sesso, per la seconda preferenza e quindi una “impropria ragione di ineleggibilità. Sotto il profilo dell’elettorato attivo, quindi, l’art. 4, comma 3, della legge campana si porrebbe in contrasto con l’art. 48 Cost., dato che la limitazione di genere per la seconda preferenza renderebbe il voto non libero.”<br />La Suprema Corte però non è stata però dello stesso avviso. In prima battuta, la Corte ha ricordato come la norma impugnata trovi fondamento nell’art. 5 del nuovo Statuto della Regione Campania, ossia la L.R. 28.5.2009, n. 6 (peraltro non impugnato dalla Governo), che al comma 3 prevede che “al fine di conseguire il riequilibrio della rappresentanza dei sessi, la legge elettorale regionale promuove condizioni di parità di accesso di uomini e donne alla carica di consigliere regionale mediante azioni positive.” In tal senso, allora, la finalità della nuova legge elettorale appare essere dichiaratamente quella di “ottenere un riequilibrio della rappresentanza politica dei due sessi all’interno del Consiglio regionale, in linea con l’art. 51, primo comma, Cost. (…) e con l’art 117, settimo comma, Cost..” Preso atto, quindi, da un lato, che il quadro costituzionale e statutario è ispirato al principio della effettiva parità tra i sessi nella rappresentanza politica nazionale e regionale, ex art. 3 , comma 2 Cost., che impone alla Repubblica di rimuovere gli ostacoli che impediscono di fatto la piena partecipazione di tutti i cittadini all’organizzazione politica del Paese; e, dall’altro, che le donne, in politica, sono effettivamente sottorappresentate, è ragionevole e condivisibile la ricerca di strumenti idonei a promuovere tale partecipazione. Nello specifico, poi, la norma campana non ha fatto altro che predisporre condizioni generali atte a favorire il riequilibrio nell’accesso alla rappresentanza. In questo caso, infatti, non vengono attribuiti direttamente dei risultati (cosa sanzionata dalla sent. 422/1995), ma vengono solo rimossi gli ostacoli alla piena partecipazione. Insomma, si tratta a tutti gli effetti di garantire parità di chances alle liste ed ai candidati nella competizione elettorale (come già stabilito dalla sent. 49/2003).<br />C’è da chiedersi, peraltro: la norma campana prefigura di fatto un certo risultato elettorale? No, secondo la Corte. Infatti, non ne viene alterata forzosamente la composizione dell’assemblea consiliare, rispetto alle scelte compiute dagli elettori in assenza della norma in oggetto. Infatti, la scelta dell’elettore è meramente facoltativa. Può decidere di avvalersi della ‘doppia preferenza’ solo se lo vuole: non è obbligato a farlo. E nel caso di due preferenze a persone dello stesso sesso, la nullità colpisce solo la seconda, salvando comunque la prima e quindi, sia il diritto di voto sia il diritto di esprimere una preferenza, il quale, in ogni caso, trova il modo di realizzarsi. “E’ agevole di fatti osservare – scrive la Corte – che , in applicazione della norma censurata, sarebbe astrattamente possibile, in seguito alle scelte degli elettori, una composizione del Consiglio regionale maggiormente equilibrata rispetto al passato, sotto il profilo della presenza di donne e di uomini al suo interno, ma anche il permanere del vecchio squilibrio, ove gli elettori si limitassero ad esprimere una sola preferenza prevalentemente in favore di candidati di sesso maschile o, al contrario, l’insorgere di un nuovo equilibrio, qualora gli elettori esprimessero in maggioranza una sola preferenza, riservando la loro scelta a candidati di sesso femminile.” Quindi, il riequilibrio tra uomini e donne viene prospettato come eventuale e possibile, ma non imposto: si tratta di una misura “promozionale, non coattiva.”<br />In merito alla questione della libertà di voto, di cui all’art. 48 Cost., la Corte osserva come normalmente, l’espressione delle preferenze incontri, in base a disposizioni di legge, delle limitazioni. Anzi, per il suo stesso concetto, possiamo aggiungere, la preferenza implica delle limitazioni. Quanto previsto dalla legge regionale campana, poi, non è certamente lesivo della libertà degli elettori, in quanto il cittadino campano che si reca alle urne può comunque sempre contare su una preferenza e, semmai, ove decidesse di utilizzare la ‘doppia preferenza di genere’, avvalersi anche della facoltà di una seconda scelta. Quindi, a ben guardare, non si tratta di restringimento della facoltà di opzione, ma, semmai, proprio il contrario: lo spettro delle possibili scelte viene allargato. In ogni caso, tengono ad evidenziare i giudici della Corte, il risultato del riequilibrio non sarebbe un effetto della legge, ma delle libere scelte degli elettori. I diritti fondamentali di elettorato attivo e passivo rimangono inalterati. Dal punto di vista dell’elettorato attivo, perché rientra tra le facoltà dell’elettore avvalersi o meno della possibilità della doppia preferenza offerta dalla legge, non riscontrandosi in essa alcuna funzione coattiva; dal punto di vista dell’elettorato passivo, parimenti non si rileva alcuna violazione poiché, in base alla norma censurata, non vi sono candidati più o meno favoriti rispetto ad altri, ma solo una “eguaglianza di opportunità particolarmente rafforzata da una norma che promuove il riequilibrio di genere nella rappresentanza consiliare.”<br />Infine, rilevato quanto sopra, occorre puntualizzare che, in base a sondaggi effettuati recentemente, quasi nessun elettore campano pare essere a conoscenza di questa nuova opportunità offerta dalla nuova legge elettorale. Quindi, la battaglia, come al solito, si sposta sul campo della promozione della norma e di un suo corretto ed efficace uso. Nel frattempo, la sentenza della Corte Costituzionale ha sortito l’effetto di accendere l’interesse di altri legislatori regionali, sicché, ad esempio, anche i Consigli regionali di Umbria e Puglia, stanno studiando norme simili a quella campana da inserire nelle rispettive leggi elettorali regionali. Di più rosa, pare che ce ne sia proprio bisogno.ALTRiTALIAhttp://www.blogger.com/profile/09128053771899935682noreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-4298065194492417554.post-87831386077849697332010-03-18T00:16:00.000+01:002010-03-18T00:17:49.583+01:00IL TUO ZAHIR di Alemar- Dimmelo ancora...<br />La pioggia cadeva leggera, dalla finestra semi aperta ne arrivava il ticchettio quasi regolare, e il profumo, intenso, era quello della polvere della terra bagnata. Affondò il viso nell’incavo del suo braccio.<br />- Dimmelo ancora..<br />Una cantilena, forse un mantra. Partì da lontano, come pensiero flebile che poco per volta cresce e si fa concetto. E scava come la goccia che cade perpetua.<br />- Sei il mio Zahir, s e i i l m i o Z a h i r... <br />Da piccolo gorgoglìo tra le sinapsi, fino alle corde vocali della sua gola.<br />-Parlami ancora dello Zahir, mi piace quando me lo racconti.<br />La mano affondata tra i suoi capelli, a districare nodi dispettosi e spirali irriverenti. Il palmo aperto sulla nuca, il profilo di lei appoggiato al petto, cullato dal ritmo del calmo saliscendi del suo respiro regolare.<br />Gli occhi chiusi, e sotto le palpebre il colore dell’attesa, e dell’amore per l’attesa. <br />Le parole arrivarono come arriva una marea, lenta e prevedibile. Amava sentire la modulazione della sua voce, il tono calmo e sicuro, il timbro chiaro e limpido.<br />Affondò in un respiro lungo, annusando frammenti di pelle e di emozioni appena consumate.<br />E il racconto partì, come una canzone nota, ma mai cantata.<br />- Ho letto in un libro di Coelho, che lo Zahir è un pensiero che all’inizio di sfiora appena, e poi finisce per essere la sola cosa a cui riesci a pensare.<br />Chiuse gli occhi marcando la carezza sulla nuca, tra i riccioli morbidi. <br />- Alina, tu sei il mio Zahir.<br />Lei si rannicchiò nella sua presa, come una gatta ruffiana e dolcissima, sfiorando con la punta del piede tutta la linea della sua gamba, fino al ginocchio; come un compasso.<br />La pioggia continuava a scendere lieve, rendendo la calura delle ore più basse del tramonto, decisamente più sopportabili. La morbidezza che nasce nel calore di un’abbraccio di donna, non ha confronti. Soprattutto quando la donna è uno Zahir.<br />- Ora che sono il tuo Zahir, che succede?<br />Sorrise, quasi divertito. Stava parlando con la bimba dispettosa che viveva in lei.<br />- Non succede niente. Che dovrebbe succedere? <br />Il bianco dei denti liberati nel sorriso appena accennato, risaltava come una silhouette nel controluce della finestra. Ne respirò il respiro, lo riconobbe familiare per i tanti baci.<br />- Se sono uno Zahir e non succede niente, è come se io fossi una donna come tante altre, non credi? Se invece io sono uno Zahir, ci sarà pure una differenza tra me, e tutto il resto dell’universo femminile.<br />- Quando una donna diventa uno Zahir, smette di essere soltanto una donna. Diventa una forma di tormentato piacere. Sei tante cose, e tra le tante, sei anche questo. <br />Un lampo squarciò il cielo illuminando la stanza; solo il tempo di aggrapparsi a lui e per non cadere nella sua paura infantile, e il tuono li raggiunse, roco e profondo. La pioggia aumentò. Lui la strinse a sé, riconoscendo il suo timore. Le morse il braccio, e poi la baciò dove il calco dei denti segnava la pelle. <br />Strinse l’abbraccio, sentendola farsi ancora più morbida tra le sue braccia.<br />- Dai, è solo un temporale, rilassati.<br />- Piove sempre così tanto qui da voi?<br />- No, è insolito in questo mese. In effetti i temporali non sono mai così numerosi, è solo una stagione bizzarra. Oppure sei tu che hai corrotto il dio meteorologico, chiedendogli il tempaccio, così rimaniamo a letto per diversi giorni?<br />- In effetti ci avevo pensato, ma non credo di aver bisogno di arrivare a tanto per convincerti a rimanere nel letto con me.. <br />E nel dirlo, si era avvicinata accavallando un poco la gamba, quel poco che bastava per farle sentire il pube caldo contro la pelle. Riconobbe il calore felino e serrò il muscolo, strofinandolo contro. <br />- Ti ricordi la prima volta che siamo stati da te, in Italia? Abbiamo passato tutto il tempo a letto. A fare l’amore e a parlare, a rifare l’amore e a riparlare. <br />- Lo so, lo ricordo. E’ stato dopo quello.<br />-E’ stato dopo quello cosa?<br />-E’ stato dopo quello che ho capito che eri diventata il mio Zahir.<br />- Sono diventata il tuo Zahir solo perché sono brava a letto?<br />Nel domandarlo si era tirata su, sui gomiti, guardandolo con la bocca un poco aperta.<br />Ecco. <br />Quando lo guadava così, con la trasparenza calma e innocente dentro il nero più cupo, lo disarmava. Poteva diventare più torbida della notte, ma dentro serbava ancora quell’ingenuità e quella pulizia che lo avevano portato a perdersi. Lei era così, bianca e nera quasi nello stesso momento. Convivevano dentro quell’anima gentile, la calma di una distesa di erba spettinata dal vento, e la tumultuosità di una bufera di neve in alta montagna. Il tao perfetto. Per questo era così irresistibilmente bella. Per le sue incredibili e improbabili diversità.<br />- No Alina, non è per questo. E’ per tutto il resto. Per tutto quello che c’è stato dal primo bacio dopo quell’improbabile saluto con un piede fuori dall’auto, e quei due giorni a casa mia, in Italia. E forse per tutto ciò che c’è stato anche prima. O forse ancora, per quello che prima non c’era stato, se non sotto forma di desiderio, tenuto al caldo per mesi. Ecco, credo sia così.<br />Lei non disse nulla, semplicemente dondolava morbida tra le parole. Ricordava i momenti descritti nei minimi particolari, e ne riviveva i frammenti come se fossero fotogrammi impressi nella sua memoria. Ne serbava colori e sapori, come un tesoro a cui attingere nei momenti lontani di solitudine, quando la mancanza di lui mordeva forte e non lasciava spazio che a malinconiche rivisitazioni oniriche. Stava bene, quella sensazione nata piano, le piaceva. Le piaceva davvero tanto.<br />Sentì la sua mano carezzarle piano la testa, scendere sulla nuca per disegnare con la punta del dito, la parola Zahir, sulla spalla. Non si era neppure reso conto di averlo fatto. Lei si.<br />- Cos’hai scritto?<br />- Ho scritto qualcosa?<br />- Si, hai scritto qualcosa. Hai scritto Zahir..<br />- Davvero? Non me ne sono neppure accorto, non è stato un gesto condizionato, è nato da sé, davvero.<br />Si stupì, perché era stato proprio così. Lo aveva fatto senza pensarci.<br />- Sai – e si tirò ancora su sulle braccia per poterlo guardare meglio in viso – ho un regalo che voglio farti. In realtà è un regalo per entrambi. Ci stavo pensando da un po’. <br />- Che regalo?<br />- Voglio che tu scelga un simbolo, un modo, insomma qualcosa che stia sul mio corpo e ne indichi la cessione a te. Voglio che il mio corpo parli, dicendo che sono tua. Decidi tu cosa, non ci sono divieti. Mentre lo guardo o lo guardi, voglio sentire che ti appartengo. Che sono tua, come io sono per te lo Zahir.<br />Lui si mise seduto sul letto, il lenzuolo copriva metà del suo corpo. La guardò, tra l’incredulo e il divertito. Non capiva se effettivamente parlava sul serio o era un gioco. Poi si perse nuovamente nel suo sguardo, e il sorriso senza malizia gli disse che non era uno scherzo, si trattava di un pensiero ben meditato, e soprattutto di un dono fatto col cuore, per mezzo di un amore che le traspariva dagli occhi e si rifletteva nei suoi. Era un modo per dire quanto fosse forte e importante per lei, quel legame.<br />- Tu sei tutta matta...<br /> E ne approfittò per baciarla.<br />- Si, questo sarà anche vero. Ma è anche vero che non ho mai portato addosso i segni o i simboli di nessuno. Se con te ho deciso di farlo è solo perché lo sento profondamente dentro. <br />La guardò con tutta la tenerezza di cui si sentiva capace, sentendosi orgoglioso di aver preso uno spazio così rilevante nella sua anima. Sapeva che l’eco di quelle parole sarebbe rimasto dentro entrambi con un riverbero lungo, sulla stessa nota musicale.<br />- Ti sembra una cosa stupida?<br />Si era fatta piccola piccola nel dirlo.<br />- Mi sembra una cosa bellissima, e mi piace. Ci penserò; penserò a cosa meglio potrà simboleggiare la nostra storia, il nostro stare insieme. E poi decideremo insieme se andrà bene.<br />- Qualsiasi cosa tu decida, io la farò. Questo è il vincolo che ci unisce in questo gesto. Questo è il vero significato. <br />La strinse ancora a sé, e accarezzò il profilo della sua schiena, fino a dove il muscolo lombare diventava gluteo. E in quella morbida rotondità, ad occhi chiusi, lui rivide e sfiorò la duna rossa, che arrivava all’oceano.<br />Lei si adagiò piena sul suo corpo, affondando il viso e la bocca nel suo collo. Si riempì le narici del suo profumo, cercando di impregnare pelle con pelle. Liberò la lingua e seguì il profilo, tracciando a saliva la sua voglia e il suo desiderio. Sentì il primo gemito, al quale rispose con altri baci, con altri sussurri umidi e caldi. Ne seguirono altri, e poi altri ancora. I corpi avevano già cominciato a danzare l’uno addosso all’altra, cercando di guadagnare centimetri inesplorati. Non esistevano più barriere o confini, esisteva un unico desiderio, che come una sfera sonora, dondolava tra di loro, seguendo la linea delle loro curve sempre in movimento.<br />La prese per i fianchi, perché sapeva che amava sentirsi preda. Le fece sentire la decisione nel polso, e la aiutò a spostarsi su di lui, per combaciare lungo tutta la sua lunghezza.<br />Poi lei emerse tra i riccioli spettinati, con un sorriso grande e aperto a tutte le ipotesi di quel loro frammento di vita.<br />La pioggia continuava ad essere la colonna sonora di quell’angolo d’Africa al tramonto. Alina cominciò a sentire nel ventre, quel languore morbido e felpato, tipico del desiderio quando cresce e prende forme sempre più definite. Nel suo caso, il desiderio era per un uomo silenzioso ma attento; con grandi emozioni dentro l’anima, senza più la capacità di lasciarsi andare in balia di quelle onde da tempo sopite. <br />Forse, ora che aveva raggiunto lo Zahir, poteva riprovare a chiudere gli occhi, abbandonandosi alla corrente del fiume che da troppo tempo, non navigava più.<br />Lei si tirò un po’ più su, descrivendo nuove mappe sulla sua pelle, mordicchiando e sorridendo. Ancora e sempre.<br />- Non mi hai mai detto che mi ami.<br />Glielo aveva sussurrato tra un bacio e l’altro, mentre lui giocava con la sua schiena dalla pelle ambrata, rubandole calore.<br />- E’ vero, non te l’ho mai detto. Ma ti ho detto ben di più; ti ho detto che sei il mio Zahir. <br />La prese come una vittoria sincera, una piccola conquista verso il suo cuore. Non ci mise molto a trovare la sintonia giusta. Lo guardò negli occhi. Sorrise. Poi cercò il suo sesso già pronto, e con un movimento lento del bacino, lo inghiottì. <br />Lo sentiva pulsare dentro di lei, sentiva le sue pareti dilatarsi ogni volta che si muoveva. Rese lento il movimento, fino quasi a fermarsi.<br />E poi lo guardò negli occhi, per rapire quelle emozioni a cui non sapeva dare voce, e a quelle emozioni parlava con il suo guardarlo, con il suo mostrare nel volto il disegno del piacere che poco per volta avanzava. Ad ogni spinta un sussulto, un fremito. Che dal ventre arrivava agli occhi neri, bagnati di voglia. Liquidi di piacere puro. <br />Con le mani appoggiate sul suo petto, sentiva quel corpo sotto di lei, formare il calco dentro l’umido del suo piacere. E poi si lasciava andare, lasciava a lui il ritmo che più preferiva. A lei piaceva sentirsi completamente presa, quel combaciare di corpi, quell’incastro al limite della possibilità fisica, le induceva una scossa che la faceva rabbrividire. Ogni volta che lui spingeva, lei saliva un gradino in più verso il paradiso; e quando spingendo la prendeva per i fianchi, sentiva sciogliersi tutto ciò che dentro, possedeva ancora una forma. Diventava in quel modo, in quella danza, il suo naturale proseguimento, come se fossero parte della stessa forma, come se i corpi, fondendosi nel reciproco darsi, diventassero un’unica entità. <br />Buttò la testa all’indietro, lasciandosi domare, e in quel susseguirsi di rincorse, sentì l’orgasmo salire, arrivare da lontano, e infine travolgerla, completamente. Totalmente. Fino ad accasciarsi sul suo corpo, con il viso trafelato di piacere, sudato, sorridente e stropicciato tra i capelli che si appiccicavano come la cornice di un quadro astratto.<br />Le contrazioni muscolari rallentarono, lasciandola felicemente sfatta nel corpo e nell’anima. Capitava che a volte, provasse un senso di nausea, dopo l’amore. Ma spariva quasi subito, lasciandola pronta a nuove fantasie.<br />Si adagiò sul suo petto, respirando la sua pelle, e i loro sudori mescolati. Amava ascoltare il cuore che fermava la sua corsa, era una dolce ninna nanna, che la calmava e la rendeva piena di lui.<br />Poi cercò il suo sguardo, per dire al suo silenzio, che lo amava, lo amava profondamente.<br />- Ho notato che quando facciamo l’amore, ogni volta che apro gli occhi, mi stai guardando.<br />- Perché mi piace guardarti. Sei bellissima, è bellissimo guardarti godere. Sei così...sei così tu.. naturale. Sei come ti sento. Vera, e libera. Il tuo piacere è bello, anche da guardare.<br />Rimasero in silenzio per un po’, sfiorandosi in punta di dita dove la pelle e la posizione lo permettevano. Poi si sdraiò accanto a lui guardando un punto imprecisato sul soffitto, stendendo le gambe un poco indolenzite. Sentiva il suo seme colarle sulla pelle. Ne percepiva la differente temperatura. <br />Non parlarono. Continuarono ad ascoltare la pioggia che non smetteva di cadere. Dei tuoni non rimaneva che un debole e lontano lamento. <br />Poi lui ruppe il silenzio.<br />- Cosa senti, cosa vivi in quel momento? Sapresti descriverlo a parole?<br />- Il mio piacere... se dovessi descrivertelo, potrei paragonarlo ad uno tsunami. Ossia, quando l’orgasmo arriva, è devastante. E’ un po’ come voltarsi di spalle e vedere dietro di te un ‘enorme onda, che travolge tutto. E copre, cancella. Però non in senso negativo!<br />Sorrise coricandosi sul fianco. Lui come uno specchio, fece altrettanto. Cominciarono a parlare fitto fitto, con le bocche così vicine da percepirne il tiepido del respiro.<br />- E poi è come perdere per un attimo il contatto con la realtà del presente, esiste solo quello, SONO solo quello. Puro piacere. Quando lo tsunami passa, rimane il silenzio. Rimango ferma, a guardare la potenza che mi ha appena travolta. E attendo. <br />Sorrise chiudendo gli occhi, consapevole che lui la stava guardando. <br />- Cosa attendi?<br />- Attendo il prossimo tsunami!<br />- Ma ne hai appena vissuto uno..<br />- E’ vero, ma vedi, non so dirti se funziona così solo per me o è uguale per tutte le donne. Arriva lo tsunami, e la sua portata è devastante. Poi cala il silenzio. Mi fermo sulla spiaggia a guardare ciò che si è lasciato dietro, e poco per volta, vedo il mare incresparsi, come se la brezza si alzasse fino a gonfiare le onde e a farne schiuma sulla cresta. <br />Lo stava raccontando sempre ad occhi chiusi, mentre la mano di lui, cercava di ricostruire il disegno della sua fantasia. Immaginando cosa in lei, prendesse forma in quel momento.<br />Accostò la mano tra le sue cosce, e le trovò caldissime, e bagnate. Il sesso al suo tocco, era già schiuso e pronto, e lui riconobbe il gonfiarsi dell’onda che stava arrivando.<br />Lei ebbe un sussulto, e si lasciò aprire dalle dita gentili e decise. Capaci di arrivare dove il piacere aveva il suo apice. La guardava mentre la toccava, e ascoltava la voce farsi roca, spezzarsi tra i sospiri..<br />- Ecco, hai capito perfettamente, è così. Io ora sono seduta sulla spiaggia, e guardo montare la marea. Le piccole onde, diventano poco per volta grandi onde, alte e spumose. Il livello del mare si alza, ed io con lui..<br />Affondò adagio nel suo piacere, che copioso gli copriva le dita, si sentiva eccitato nel trovarla già così pronta, così tremante sotto il suo frugare vorace. Scavava come se fosse roccia, dentro la quale si trovava incastonata una pietra rarissima e preziosa. Lei spingeva il bacino verso la sua presa, si lasciava aprire, perché quella era l’unica mano che custodiva la chiave. Il forziere segreto, nascosto nel mare. <br />- E poi le onde crescono, e diventano marea, alta, altissima marea... e poi ti volti, guardi la spiaggia, e ti rivolti... e allora.... lo senti, lo vedi, in lontananza lo tsunami si sta formando, e sai che non esisterà nulla capace di salvarti dalla sua devastazione. E in fondo, non desideri altro...<br />Aprì gli occhi, guardando l’uomo ora divenuto liquido come la sua stessa voglia, mentre la toccava così in profondità. Lo baciò come se volesse mangiarlo, mugolandogli piacere tra le labbra schiuse.<br />- Le senti le mie onde? Dimmi, le senti?<br />Lui la guardò, e senza parlarle le scivolò sopra. Cominciò a baciarla, morderla, succhiarla ovunque. Il seno, i capezzoli, protesi e sensibili più che mai. L’ombelico, colmo della sua saliva, i fianchi, e infine, buttandosi le sue gambe sulle spalle, affondò nella polpa di quel frutto maturo, pronto per essere colto.<br />Lei si lasciò portare verso la via indicata dalla sua lingua, che la divorava senza sosta, senza darle respiro. Piacere, solo ed unicamente piacere. La toccava, e la mangiava, la mangiava e la toccava. Eccitato dalla sua stessa eccitazione. Candida come un angelo, torbida come la notte. Eccola riapparirgli ancora una volta come il primo giorno. Quando senza saperlo, aveva incominciato ad innamorarsi di lei. Eccola, con le mani premute sulla sua testa, come per fagocitarlo nella sua lussuriosa voglia. Eccolo rimontare, il suo tsunami. Ed eccola felice di farsi travolgere ancora una volta dal piacere che non conosceva ostacoli.<br />Non si trattenne, e glielo disse, perché lei amava parlare. Amava condividere il suo piacere, amava sentirsi persa, e amava mostrarsi persa. E al suo ‘eccomi, - amore mio - vengo’ cominciò a sussultare, a sentire il corpo ingestibile, perché nel godimento non deve esistere controllo. Forse può esistere prima. Mai durante.<br />Alina. <br />Sfatta dal piacere, ancora in preda agli scatti convulsi e ritmati di quelle contrazioni che la portavano lontano, in mari alti e agitati. Dove solo un angelo candido e torbido come la notte, saprebbe andare.<br />La sua bocca si fece più leggera, gli occhi appoggiati sulla finestra che si affacciava sul paradiso. Il sesso pulsante e bagnato di umori mescolati, cercava sollievo. Ad ogni colpo di lingua era un sussulto che apriva. E poco per volta il respiro ritrovava il suo ritmo, e il cuore riduceva la sua corsa.<br />Poi si stesero, lei ancora raggomitolata accanto a lui, con il viso accaldato e i riccioli ribelli sempre spettinati.<br />Tirò un lungo respiro, cercò la sua mano e la strinse.<br />Entrambi sospesi, come particelle infinitesimali gettate a caso, nel caso. Rimasero così, fino a quando il crepuscolo lanciò ombre lunghe tra le tende e la finestra appena accostata.<br />Poi lui le prese il viso tra le mani, e guardandola dentro l’anima riflessa nell’iride, glielo disse ancora.<br />- Alina, sei il mio Zahir. <br />Lei sprofondò nel bacio che gli diede, e lo strinse forte. <br />Lui non le aveva mai detto che l’amava. Ma in fondo, essere uno Zahir valeva molto di più.ALTRiTALIAhttp://www.blogger.com/profile/09128053771899935682noreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-4298065194492417554.post-80605573668889648512010-03-18T00:13:00.000+01:002010-03-18T00:15:22.838+01:00SANGUE E RUM di AlemarQuanto è pericolosa la consapevolezza di una donna?<br />Baby, se tu fossi qui, lo sapresti, o forse, con un colpo di fortuna lo scopriresti. <br />Questa è una di quelle sere in cui sangue e rum dettano le regole. Avviene la trasformazione. Ti piace, lo so. La senti, la immagini, la respiri nelle mie parole. Ed io mi rimetto a danzarti attorno, potrei sfoderare la lama tagliente della mia sensualità senza filtri. Potei annegarti nel profumo che mi lascio alle spalle, camminando lenta davanti a te.<br />Potrei farti ascoltare quel pezzo in portoghese, e sussurrarti quanto mi piacerebbe tu lo cantassi a bassa voce per me, mentre sdraiato alle mie spalle, intrecci le gambe appoggiandomi il sesso già gocciolante, alla schiena.<br />Quasi struggente il mio spingere il culo indietro, quasi commovente la provocazione che profuma di ostentato desiderio.<br /> Lo so, mentre le note scorrono, tu lasci andare le tue mani grandi, a palmo aperto, lungo la mia schiena, sfiorando il profilo del mio fianco. Indugia baby, se ci riesci. Indugia tra le mie cosce, se sarai fortunato, ti lascerò giocare.<br />Gioca sporco, bara, gioca duro. Non avere pietà di me, perchè io non ne avrò per te. Graffierò via dalla tua anima tutto ciò che di limpido possiede, trasferendo il torbido del mio piacere su ogni centeimetro di pelle, ogni goccia di sangue. Sarai la parte meno raccomandabile di una donna che ti ha drogato lo spirito lasciandoti stordito, in balia delle proprie onde.<br />Raccoglimi, raccontami.<br />Dimmi tutto quello di cui ancora, hai pudore. Oltrepassa la barriera, riscrivi il confine. Diventa il bastardo di cui ho bisogno per godere, insegnami che non ho imparato tutto, e che nella tua tranquilla capacità di aspettare, vive una passione che ancora lascia brividi malcelati, di cui non so nulla.<br />Fammi sentire che il morso nato su labbra docili, può diventare feroce e famelico, come un leone che non trova prede da troppo tempo. Ecco si, fammi sentire, fammi vivere da preda. Azzannami dietro il collo, piegami e prendimi. Come fanno gli animali.<br />Ho voglia di sentirti per come non sei mai, ho voglia della tua parte più istintiva, come quella che parte dalle viscere e mi raggiunge nella notte, calda e madida di sudore.<br />Scopami, scopami forte.<br />Il cervello ancora prima del corpo, la mente prima della carne. Pulsami dentro al ritmo del cuore. Il tuo.<br />Donami il piacere del dubbio, rapisci i sensi, portali lontano, e coricati su di essi.<br />Lasciami addosso il calco, l’impronta. Fagocita tutto l’improbabile, e rendilo palese ai miei umori.<br />Prendimi ancora, per i mesi lunghi in cui l’hai desiderato senza mai dirlo. Io ti sentivo, sai? Strisciare furtivo tra parole raccomandabili, fin troppo sterili. Ed il cursore lampeggiava inarrestabile. Come il desiderio di me.<br />Perchè indugi? Di fronte alle donne come quella che ti sta scrivendo, non puoi tirarti indietro, se le incontri sei perduto. L’oblio ti ha già investito, permeato. Ne diventi parte integrante, e un pezzo di lui rimane nel tessuto connettivo; si muove con te ad ogni contrazione muscolare.<br />E’ come riconoscere un profumo tra tanti, unico per te, come gli istanti che silenziosamente ci siamo promessi...<br />Allora vieni qui vicino a me, baby. Ma non fare il dolce, sono stanca di uomini al miele che promettono amore eterno.<br />Prendimi per come mi desideri, non recitare una parte, non hai bisogno di preamboli inutili e noiosi, se mi vuoi contro quel portone, prendimi lì, fammi sentire la rugosità umida del legno, alzami la gonna. Nuda, così che il succo di questa follia, scivoli lento e inesorabile lungo la coscia ambrata. <br />Voglio sentire il legno graffiarmi la pelle, voglio il dolore che solo il piacere senza freni sa dare.<br />Voglio sentirmi libera di volare in alto, dove mi raggiungi leggero.<br />Portami dentro, tienimi. <br />Ti farò male, ti graffierò il cuore, sarò indelebile dentro e fuori di te. Ma sebbene ti bruci un poco ogni giorno, questa passione sarà la ragione per la quale ogni notte, tornerai al portone dove mi hai inchiodata. <br />Il desiderio di pochi istanti, nettare di attese impalpabili, che ingannano la memoria svelando solo il ricordo del mio sguardo, mentre languida mi lascio raggiungere...<br />Sei dentro me, sono dentro te.<br />Se mi lasci entrare, sarò il tuo delirio, per sempre...<br /><br /><br />Scritto in una notte senza luna, tra candele ed incensi. <br />Dentro l’ambrato di un rum passato nel rovere.<br />Inseguendo la passione che mi tormenta, senza darmi respiro.ALTRiTALIAhttp://www.blogger.com/profile/09128053771899935682noreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-4298065194492417554.post-34432756040816939132010-03-15T12:20:00.000+01:002010-03-18T10:41:37.231+01:00A MORIRE COSI’ NON SON CAPACI TUTTI di Giuseppe Tramontana<a onblur="try {parent.deselectBloggerImageGracefully();} catch(e) {}" href="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEiVecy2PXT0m2N70oRolkxP_H8qSGDrEmUSK7panbZRN6txaCqjn0_LxH3dnQFdMUGJiMNBpFllEf90ACIj2va85P1mnw8kiVr5vrfwcNS_ppSsgz1fv6d-jSAgSMkfkq40wTZ-mbf8SVan/s1600-h/MARIO+FRANCESE.jpg"><img style="float:left; margin:0 10px 10px 0;cursor:pointer; cursor:hand;width: 92px; height: 130px;" src="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEiVecy2PXT0m2N70oRolkxP_H8qSGDrEmUSK7panbZRN6txaCqjn0_LxH3dnQFdMUGJiMNBpFllEf90ACIj2va85P1mnw8kiVr5vrfwcNS_ppSsgz1fv6d-jSAgSMkfkq40wTZ-mbf8SVan/s400/MARIO+FRANCESE.jpg" border="0" alt=""id="BLOGGER_PHOTO_ID_5449899286079000546" /></a><br />Cosa sarebbe l’uomo se <br />non avesse la memoria…<br />Sarebbe come una <br />lastra opaca senza spessore. <br />Ma per fortuna l’uomo ricorda.<br /> (V. Brancati)<br /><br />La forza e la libertà fanno gli uomini eccellenti.<br />La debolezza e la schiavitù non hanno mai fatto altro che malvagi.<br /> (J. J. Rousseau)<br /><br /><br />Perché questo testo? Probabilmente molti di voi hanno vissuto bene fino ad ora senza conoscere questa storia. Probabilmente molti altri vivranno ancora meglio non avendone mani sentito parlare. Tuttavia crediamo che proponendovelo possiate crescere meglio. Se non altro, più consapevoli. Questo, almeno, lo scopo che ci siamo prefissi.<br />Tutte le storie che ci vengono raccontate, si sa, ci rimangono dentro. Ancora andiamo sognando intorno alle favole che ci venivano raccontate prima di addormentarci. Anche questa storia, ci piacerebbe vi rimanesse dentro. E, con essa, anche lo spettacolo collegato.<br />Ci hanno sempre detto che la storia si studia perché i fatti non si ripetano. Non sembra essere così, ma noi siamo testardi e ci piace credere alla possibilità che la narrazione di un fatto, di un evento possa contribuire a formare una coscienza critica. <br />Vuole ricordare, tramite una dolorosa storia umana, che non sempre è possibile girarsi dall’altra parte. Non possiamo fingere ogni volta che nulla ci riguardi. A furia di girar la testa, ci sentiremo svenire. È ora di fermarsi, alzarla, questa testa, e guardare in faccia la realtà.<br />Abbiamo un’ età che ce lo impone. Come è solito dire l’autore di questo testo: “la storia l’hanno fatta i giovani”. Giovani come noi. Come i ragazzi orfani di mafia, guardati storto solo perché lo Stato ha concesso loro un posto senza un concorso. Perché hanno trovato posto dietro una scrivania senza dover fare la fatica di farsi raccomandare. Ragazzi che sentono lo sparo che uccide il padre. E per questo vogliono trovare e sconfiggere la mano che ha premuto il grilletto. Ci sono poi tutti quei ragazzi che lottano quotidianamente per vedere riconosciuto il più fondamentale diritto: la libertà. Quella vera, non quella dei comizi politici. E per vederla riconosciuta lottano, manifestano, alzano la testa e gridano. Fanno sentire la propria voce. In una parola: informano.<br />Nel nostro piccolo ci sentiamo un giornale. E per questo vogliamo informare. Ecco perché abbiamo favorito la messa in scena di questo spettacolo ed abbiamo deciso di stamparne il testo. È un modo per fare informazione. E soprattutto per creare un senso critico, che faccia alzare la testa anche a noi per guardare negli occhi il nostro avversario. E dopo averlo osservato, avere il coraggio di combatterlo. Un avversario che, in fondo, ha un nome che conosciamo bene e spesso si annida nelle pieghe più tranquille della nostra coscienza: indifferenza. <br /> <br />Piero Galtarossa <br /><br /><br />A MORIRE COSI’ NON SON CAPACI TUTTI<br /><br /><br />Io sono Francese. Cioè io sono italiano, ma faccio Francese di cognome. Giuseppe Francese, per la precisione. Ho 36 anni. Oggi, secondo molti qui a Palermo, io sono un tipo fortunato. Fortunato non solo perché lavoro, ma perché ho ottenuto il posto di lavoro nella pubblica amministrazione come orfano di una vittima della mafia. Insomma, faccio parte di una categoria fortunata, secondo loro. E sapete perché? Perché noi, gli appartenenti a questa categoria, non abbiamo fatto nessun concorso, non abbiamo sudato sui libri e sui quiz per i concorsi, non siamo stati assunti grazie ad una legge dello Stato. Lo stesso Stato, invece, fatto… funzionare… diciamo… da gente notoriamente assunta con un concorso e non per raccomandazione di un don Peppino o di un Onorevole Scannapieco qualunque…. Alla Regione Siciliana, poi… tutti entrati con regolare concorso, sapete? Tutti, proprio tutti. Uno per uno. Ma fatemi il piacere! E quei pochi che un concorso l’hanno fatto davvero, non si sono rivolti a nessuno? Proprio a nessuno? Un amico, un parente, un amico di caccia, un testimone di nozze, un compagno di partito? Noi invece dobbiamo dire grazie solo ai nostri padri, morti da uomini in un mondo di quaquaraquà. E se gli altri sono invidiosi, fanno bene ad esserlo, perché pochi hanno avuto la fortuna di avere padri come il mio.<br />E sul lavoro cerco di essere serio. Professionalmente inappuntabile. Integerrimo, dice qualcuno. Rompicoglioni, dice qualcun altro. Mi sono occupato di Enti locali e di IPAB. Ho segnalato irregolarità, fatto rilievi, indicato cose che mi facevano sorgere perplessità ma non è successo mai nulla. Tutto, sempre, nel cestino. Tutto tempo perso. Il mio, almeno. Dopo ogni mia segnalazione, puntualmente il dirigente mi chiama e mi dice: ‘per favore non sollevi problemi’. E non sollevo problemi un cazzo, dico io. Non ho mai ascoltato questi consigli. E com’è andata a finire? Gli altri sono stati premiati e a me calci in culo.<br />Ma non importa. Dalle mie parti si dice che chi nasce rotondo non può morire quadrato. Non solo. Si dice anche che chi da gallina nasce, in terra raspa… Si dice anche da voi? Bene, io sono nato da mio padre. E di lui vi voglio parlare. Di te voglio parlare, papà.<br /><br />Papà, avevo quegli occhioni scuri quando bruscamente sei andato via. Ho ancora gli stessi occhi e con loro continuo a percorrere le impervie strade della vita. Senza di te, ma con te. Perché mi hai lasciato quella indelebile impronta. E così, con te dentro me, continuo a vivere mentre m’incontro e mi scontro con la vita.<br />Onora il padre, dice un comandamento. Purtroppo, con il mio non ho avuto tanto tempo. Se n’è andato via presto. Me l’hanno portato via presto. Dopo, nel corso di questa mia vita ho cercato comunque di farlo. Di onorarlo. Così almeno credo. <br />Avevo dodici anni quando, la sera del 26 gennaio 1979, mio padre venne ucciso. Io ero a casa. Ve lo immaginate? Immaginate la scena? Voi siete a casa, avete dodici anni e mentre guardate la televisione sentite dei colpi di pistola. Sei, per la precisione. In rapida successione, come suol dirsi. Quell’attimo, quel fatto hanno sconvolto la mia vita. Quel rosario di colpi ha leso un qualche punto nevralgico della mia esistenza. Poi sono cresciuto. Che fatica. Sapete, è dura senza padre. E man mano che crescevo, lievitava dentro di me un immenso vuoto e una feroce, onnivora ansia di giustizia. La prima ragazza, il primo amore, la sconfitta nella partita di pallone, i voti a scuola, gli scazzi con gli amici o i professori. Non ho potuto raccontare niente di tutto questo a mio padre. Niente voce maschile che ti invita a mettere giù il telefono, niente tifo a bordo campo, niente andare a parlare coi professori… ché tanto, come dicono spesso tutti i genitori, di loro…. cioè di noi ragazzi…. loro, i genitori, non sanno mai una sega. Sono stato solo. Spesso isolato. In una città come la mia dove i parenti delle vittime spesso vengono evitati manco fossero appestati. Dove, passato il primo momento di cordoglio, subentra l’indifferenza se non, addirittura, l’astio: certo, è figlio di una vittima di mafia e con questo si è sistemato… nella pubblica amministrazione… senza concorso, ad esempio. Giusto, no? Voi cambiereste vostro padre con un impiego sicuro? No, non c’è bisogno di rispondere. La risposta la conosco già.<br />Ammetto che per un breve periodo la sete di verità si è trasformata in rassegnazione per una giustizia assai lenta. Ma la rassegnazione lentamente è diventata rabbia. E di castelli di rabbia, in questi anni, ne ho costruiti veramente tanti. Sono cresciuto con l’ansia da giustizia, possiamo dire. <br /><br />Questa è la storia di mio padre. Ma è la storia del giornalismo. Di un giornalismo di frontiera dove chi scrive può morire per un sì o per un no. Dove il giornalista, colui che, questo mestiere, vuole farlo davvero, con scrupolo, coscienza e onestà, è nemico di tutti e amico di nessuno. E’ guardato storto dai potenti e dai loro lecchini, è ostacolato da quelli che crede amici, è isolato dai colleghi di redazione, è cacciato via dai circoli perbene, dai salotti buoni, ma non trova conforto neanche tra la povera gente, tra quelli per i quali lotta, si impegna, si espone: per loro è solo uno che vuole fare carriera sulle loro disgrazie. E vai a fargli cambiare idea, se ci riesci. E’ uno, infine, che va bene solo dopo morto, quando si appropriano della sua memoria, delle sue battaglie, delle sue inchieste e lo glorificano. Ma quanto era bravo, ma quanto era buono, ma come denunciava bene, che coraggio aveva! Sempre dopo, però! Intanto è morto. Ammazzato, magari. <br />Voi lo sapete quanti giornalisti sono stati uccisi in Italia dal secondo dopoguerra a oggi? Non lo sapete? Ve lo dico io: 17. Walter Tobagi, Carlo Casalegno, Giancarlo Siani, Maria Grazia Cutuli, Ilaria Alpi, Enzo Baldoni e via discorrendo. E in Sicilia, quanti giornalisti sono stati uccisi? Contiamoli: Cosimo Cristina, Giovanni Spampinato, Mauro De Mauro, Pippo Fava, Beppe Alfano, Mauro Rostagno, Peppino Impastato e mio padre, Mario Francese. Quanti sono? Otto. Tutti giornalisti, tutti morti ammazzati. Tutta gente che scriveva. Scriveva soltanto. Non faceva altro. Ma, per loro scrivere significava vivere, capire, lottare, stare dalla parte giusta, contro potenti ed i prepotenti, i mafiosi e i loro compari. Semplicemente capire. E qui da noi capire è spesso la cosa peggiore che ti può capitare.<br />Una volta andai ad una mostra di pittura. Era a Padova, questa mostra. Nella sede della Prefettura. Credo che fosse l’anno ’87 o l’‘88. Era estate, ero andato a fare un giro e capitai da certi amici a Padova. Andai alla mostra e vidi questi quadri. Quadri di pittori russi. Anzi, sovietici, visto che all’epoca c’era ancora l’Unione Sovietica. Diciamo la verità: non è che fossero granché. Però, ne vidi uno che mi colpì particolarmente. O meglio, non è che mi colpì il dipinto, ma il titolo che portava. Rappresentava, in primo piano, due polsi incatenati con le catene che si rompevano colpiti da un libro. Sullo sfondo una manifestazione. In testa alla manifestazione uno striscione con una scritta in cirillico che, naturalmente io non capii, ma che – lo afferri dopo – era il titolo stesso del quadro. Bene, il titolo era: la conoscenza rompe le catene della schiavitù. Capito? La conoscenza rompe le catene della schiavitù. Una folgorazione. Almeno per me. Per questo mio padre e gli altri giornalisti sono stati uccisi. Solo per questo. Volevano capire o avevano capito. E spesso, in Sicilia e non solo, questa è una strada da non imboccare. Meglio di no. Quella loro scrittura era conoscenza, sete di giustizia, sfida a chi ci vuole carponi. Era il loro modo di stare a schiena dritta. Qualcuno di voi scrive? Io sì. E’ bello scrivere. Ed è bello avere qualcuno che ti legge, no? Per voi magari sarà una rottura di scatole: il tema, il compito, la versione… Così l’abbiamo vissuta tutti. Eppure, pensateci, qualcuno ci ha rimesso la vita nel tentare di fare questa cosa a volte così odiosa… Otto morti solo in Sicilia, dicevamo. Diciassette in Italia. E non sono morti per caso, non sono morti perché si sono trovati semplicemente nel posto sbagliato al momento sbagliato. I nostri morti sono vittime della conoscenza. Hanno voluto fare informazione, fare domande chiare e sfacciate, mai ossequiose, mai da invertebrati. Invece, c’aveva le palle, mio padre. Ed aveva quella fiducia cieca nel suo lavoro che confina con l’ingenuità. Forse perché lui non era palermitano, ma un siciliano d’Oriente, di Siracusa, di quella provincia che, allora, veniva chiamata ‘babba’, cioè stupida, perché sostanzialmente non bacata dalla mafia.<br /><br />Era forte mio papà. Ricordo bene le sue bellissime mani e i suoi occhi scuri pieni di bontà…. Sapete cosa ricordo bene anche? Il ticchettio della macchina da scrivere. La sera, dopo cena, a volte fino a notte inoltrata, si chiudeva in studio e scriveva. Tic-tac tic-tac. Era abbastanza veloce, ma non velocissimo. Credo battesse con due soli dita, gli indici. Ma masticava chilometri di nastro, quintali di carta. Piano piano. Dammi tempo che ti pèrcio, che ti buco, come si dice da noi. Colpo dopo colpo, parola infilzata a parola, aggettivo azzeccato a sostantivo, le cose gli venivano bene ed uscivano sempre degli articoli di cui i palermitani parlavano per giorni. Io mi avvicinavo alla porta dello studio, accostavo l’orecchio. A volte sentivo una piccola imprecazione, un foglio tirato via con energia, lo sfregamento dell’accendino per la sigaretta. E ascoltavo. Certe volte lui avvertiva la mia presenza oltre la porta e mi chiamava. Entravo nel fumo, nel suo ordinato disordine. Tra i libri sugli scaffali, l’odore di chiuso e le cicche schiacciate nel posacenere. Ma mi piaceva. Perché mio padre stava facendo una cosa importante. Lui scriveva su un giornale. Non sapevo esattamente cosa. Ma ci scriveva. Eccome! E così mi sono innamorato anch’io di quel mestiere bastardo. Anche se ufficialmente il mio lavoro, come vi ho detto, è alla Regione Siciliana.<br /><br />Papà, te lo posso dire. Forse tu non avresti voluto. O forse sì. Ma io l’ho fatto lo stesso. Ho scritto anch’io ed ho scritto di mafia. Nella mia vita non ho soltanto cazzeggiato, qualcosa di serio l’ho fatta anch’io. Papà, tu sei stato un grande giornalista investigativo. Scrivevi soprattutto di mafia e per questo ti hanno ucciso. Che tu fossi il migliore lo dice un’inchiesta giudiziaria sfociata poi in un processo. Sette le condanne. Ti dicevo, anch’io ho scritto qualcosa. Perché lo faccio, dato che il mio lavoro è tutt’altro? Boh! Forse ho sete di verità. O forse il giornalismo mi scorre nel sangue. O sono un illuso, uno di quelli che crede ancora nella forza delle parole. Così qualche inchiesta l’ho fatta pure io. Per periodici poco conosciuti, ma che mi hanno garantito la libertà di scrivere quello che volevo. L’ho fatto. E bene, credo. Ad esempio, sono stato felice nello scrivere e ricordare un giornalista, un ragazzo di 25 anni, ammazzato come un cane quasi cinquant’anni fa, nel 1960. Si chiamava Cosimo Cristina. Era di Termini Imerese. Già da cinque anni faceva il corrispondete per il giornale L’Ora di Palermo, per il Giorno di Milano, per l’agenzia Ansa, per il Messaggero di Roma e persino per il Gazzettino di Venezia. Era bravo, ambizioso, capace, integerrimo come solo i giovani e i grandi idealisti sanno essere. Se poi sono allo stesso tempo giovani ed idealisti, si presto a chiamarli rivoluzionari. Lui, a modo suo, lo era. Aveva fondato, cinque mesi prima di morire, un suo giornale: Prospettive Siciliane, si chiamava. Andava in giro sempre con un farfallino, un papillon, e una stilografica pronta all’uso nel taschino, infilata nel block-notes. Tutte le mattine si recava a Palermo, all’ufficio dell’agenzia giornalistica Ansa in attesa che la telescrivente battesse una notizia interessante per aprire una nuova inchiesta. Con le sue ricerche aveva seminato lo scompiglio tra le file mafiose di Termini, Cefalù e delle Madonie. Era un cavallo di razza, Cosimo. Aveva un fiuto eccezionale. Non bucava mai una notizia. Si muoveva sempre in bicicletta, almeno a Termini. In treno, se il percorso era più lungo. Basta passare in rassegna i titoli degli articoli scritti da lui. Sono tutti frutto di indagini sul campo. Uno per tutti: ‘La strada per la droga passa per Palermo’. Signori, siamo nel 1958! Mica cazzi! Già, nel 1958 lui aveva capito quello che noi abbiamo impiegato quasi trent’anni a farci entrare in zucca. Si era anche occupato della serie di estorsioni e degli attentati avvenuti a Mazzarino, culminati nell’arresto e nella condanna di quattro frati del convento di Mazzarino. E fece una sua inchiesta sull’omicidio di un piccolo mafioso, Agostino Tripi, omicidio commesso nel ’57 e rimasto impunito anche perché subito rubricato come ‘commesso da ignoti’. Cosimo ricostruì la vicenda e le lotte intestine alla mafia di Termini, mostrò come la vecchia mafia agraria si stesse evolvendo in mafia edilizia, con tanto di mano libera negli appalti e traffico di droga. Indicò come mandante dell’omicidio un insospettabile, contiguo alla mafia, del quale TRipi aveva scoperto l’attività criminosa. E per questo venne fatto fuori. L’articolo fece scalpore tra i mafiosi. Un piccolo giornale di provincia descriveva alla perfezione ciò che succedeva in seno a Cosa Nostra e ricostruiva ciò che neppure molti degli affiliarti sapevano. Bisognava far qualcosa. Ora, se è vero l’assioma secondo cui prima di uccidere uno, la mafia gli crea il vuoto attorno, con Cosimo non dovette faticare nemmeno tanto. Ascoltate cosa scriveva il direttore del Giornale di Sicilia, Roberto Ciuni, subito dopo la morte di Cosimo: “A Termini uno che vuol fare il cronista e non l’avvocato o l’impiegato alla Regione o il prete, è un fallito. Se poi porta baffi a punta e barba e farfallino è ridicolo. Se tocca i mafiosi è matto. Cosimo Cristina, nel giudizio comune, era un po’ di tutte queste cose.” <br />Cosimo aveva raccontato tanto. Con scrupolo. Forse, troppo scrupolo. Intanto il 2 maggio gli successe una cosa starna: senza nessuno motivo venne licenziato dalla ditta di torrefazione di caffè “Moka Termini”. Ci lavorava da alcuni mesi. La mattina trovò la lettera di licenziamento e la busta-paga. E quando chiese spiegazioni al proprietario, questi gli risposte, secco: “Non ti devo nessuna giustificazione!” La sensazione, alla luce delle cose capitate dopo, è che fosse stato costretto per creare il vuoto (l’isolamento, ricordate?) al ragazzo: isolare e colpire. E dopo la sua morte, nessuno, carabiniere, poliziotto, finanziere, vigile urbano o pompiere sentì il sogno di chiedere al proprietario della Moka termini il perché del licenziamento. Sarebbe stato troppo, in effetti… L’indomani pomeriggio, il 3 maggio, Cosimo passò rapidamente da casa per lasciare la fidanzata Enza, che lo aveva raggiunto da un paio di giorni da Roma. Si volevano bene, i due. E lui era molto contento di essere stato raggiunto a Termini dalla morosa. Ora, vi immaginate se uno può suicidarsi proprio mentre c’è la morosa, venuta apposta da Roma, che lo aspetta a casa! Figuratevi! Basta, uscì tutto profumato e rasato, come al solito, con il consueto cravattino e il pizzetto ben curato. Uscì e scomparve. Per due giorni. Il pomeriggio del 5 maggio trovarono il suo cadavere, con la testa fracassata, sui binari della Termini-Palermo, sotto la galleria Fossola. Fu il padre, il signor Luigi, impiegato delle ferrovie, che, avendo sentito alla radio, del ritrovamento di un cadavere sui binari, accorse sul posto e riconobbe il figlio. Suicidio, venne sentenziato anche in questo caso. Ancora suicidio, sempre suicidio. E perché si sarebbe suicidato? Femmine, no? Sempre lì batte il chiodo! Gli trovarono anche due bigliettini in tasca, uno dei quali diretto a Enza, la fidanzata in cui diceva che, ci aveva ripensato e non voleva più sposarsi. Solo che a nessuno venne in mente di far fare una perizia calligrafica. Poi i bigliettini scomparvero, ma ne rimase traccia nei verbali: così tanto per avvalorare la tesi del suicidio. Il vicequestore di Palermo Angelo Mangano mise insieme un dossier in cui si avanzava l’ipotesi dell’omicidio mafioso. Sei anni dopo, nel ’66, il corpo di Cosimo venne riesumato e su di esso vennero fatti nuove indagini autoptiche. Risultato? Sempre suicidio. Peccato che ormai i rilievi erano stati eseguiti su uno scheletro. E, ciò nonostante, mi spigate come fa uno a suicidarsi dandosi un bel colpo di spranga alla nuca? Eh sì, perché così era stato tramortito e forse persino ucciso Cosimo. <br />A me, ‘sta storia non mi è andata giù. Ho fatto la mia inchiesta. Ho scoperto, dai racconti dei suoi familiari, che Cosimo aveva preannunciato 24 ore prima di scomparire che nel giornale ‘L’Ora’ del giorno successivo sarebbe apparsa una notizia-bomba. Ma l’indomani Cosimo era già morto e la notizia-bomba non apparve mai. Anzi, manco un petardo scoppiò. La bomba, quella vera, esplose diciotto anni dopo, il 9 maggio 1978. E si portò via la vita di un altro ‘ragazzo matto’. Di un’altra testa pensante senza padrini né padroni: Peppino Impastato. Un irregolare dell’informazione. Anzi, della controinformazione. Uno di quelli che non ebbero mai il patentino di giornalista – glielo riconobbero post mortem, però - ma che poteva insegnare il mestiere e soprattutto la dignità di quel mestiere a gente ben più navigata di lui. Peppino venne fatto esplodere su un binario della Palermo-Trapani, vicino a Cinisi, il suo paese. Il paese suo e di Badalamenti. Il paese in cui lui aveva deciso di combattere le sue battaglie, arroccato nel fortino di Radio Aut, a sputtanare, denunciare, prendere per il culo, sfottere, martellare i mafiosi, i loro lacché, spronando alla rivolta morale quella massa anonima di gente, suoi compaesani, che per paura, viltà o indifferenza, si erano fatti complici e schiavi: cornuti e contenti. E, per la cronaca, anche in quel caso si parlò in un primo momento di suicidio. Poi si preferì la pista del tentato attentato al treno…. Ho rivisto poco tempo fa Maria Jos, sorella di Cosimo Cristina, una bellissima signora di sessantacinque anni. L’ho incontrata per rivolgerle alcune domande. Mi ha accolto senza problemi. Ma, fissandomi negli occhi, ha incominciato a piangere. In silenzio. Mi si è stretto il cuore. In lei hanno cominciato a riaffiorare i ricordi dolorosi, taglienti come lame di rasoi legati al fratello ucciso. Un sorriso, un gesto, mezza parola masticata. Un ciao, un saluto scherzoso. E alcune foto. Una, in particolare, fu scattata poco prima della morte. E’ sorridente, lucido, lo sguardo profondo, il pizzetto. Sembra più vecchio dei suoi 25 anni. Ma credo che sia normale. Forse è colpa del bianco e nero che invecchia. Il dolore della signora Maria Jos riemergeva lentamente, risaliva lentamente lungo canali impercettibili dell’animo per riversarsi nel bacino silente di due occhi carichi di rabbia e gratitudine. Rabbia per la ferita ancora viva, gratitudine verso di me, verso un ragazzo di poco più grande di quel suo fratello ucciso che, a distanza di tanti anni, si era preso la briga di occuparsi di quel lontano, dimenticato delitto. Lo sguardo si rannuvolava sempre più. Ad ogni parola che riandava a quel fatto. Si fermava. Mi fermava. Capivo il suo stato. Ci sono passato anch’io. E gliel’ho detto. Anche lei ha compreso. Non ero imbarazzato. Anzi, ero contento di averla incontrata. Alla fine ci si rincontra, no? Magari non vogliamo darlo a vedere, ma i nostri occhi hanno sempre un’espressione particolare, gli occhi che hanno visto da vicino un parente ammazzato dalla violenza cieca mafiosa. Sono occhi carichi di rabbia e coraggio. Hanno visto tutto, ormai. Cosa ci può essere di peggio? Dopo la lunga chiacchierata, l’ho salutata e sono uscito. Andando verso casa mi sono chiesto se della tragica fine di Cosimo e dei tanti altri finiti come lui si saprà mai qualcosa, si saprà mai la verità. Non sono riuscito a darmi una risposta. Neppure di incoraggiamento. Semplicemente non lo so. Non lo so... <br /><br />“Io ho un concetto etico del giornalismo. Ritengo infatti che in una società democratica e libera quale dovrebbe essere quella italiana, il giornalismo rappresenti la forza essenziale della società. Un giornalismo fatto di verità impedisce molte corruzioni, frena la violenza, la criminalità, accelera le opere pubbliche indispensabili, pretende il funzionamento dei servizi sociali, tiene continuamente all’erta le forze dell’ordine, sollecita la costante attenzione della giustizia, impone ai politici il buon governo. Se un giornale non è capace di questo, si fa carico anche di vite umane. Persone uccise in sparatorie che si sarebbero potute evitare se la pubblica verità avesse ricacciato indietro i criminali: ragazzi stroncati da overdose di droga che non sarebbe mai arrivata nelle loro mani se la pubblica verità avesse denunciato l’infame mercato, ammalati che non sarebbero periti se la pubblica verità avesse reso più tempestivo il loro ricovero. Un giornalista incapace – per vigliaccheria o per calcolo - della verità si porta sulla coscienza tutti i dolori umani che avrebbe potuto evitare, e le sofferenze, le sopraffazioni, le corruzioni, le violenze che non è stato capace di combattere. Il suo stesso fallimento!”<br /><br />Queste parole non sono di mio padre. Avrebbero potuto esserlo, ma non sono sue. Sono di un altro giornalista, un altro uomo che ha sfidato il potere politico e mafioso. Anche lui, come mio padre, siciliano d’Oriente, anche lui – guarda caso – nato nel 1925: evidentemente quello fu un anno buono per il giornalismo con gli attributi. Anche lui ucciso – tra l’altro sempre a gennaio - perché aveva capito, capito e denunciato. Insomma perché dava fastidio ai boss ed ai loro tirapiedi. Giuseppe Fava, si chiamava. Era originario di Palazzolo Acreide, Siracusa, ma morì ammazzato a Catania, la sua città d’elezione e di battaglie, la città in cui dirigeva il più coraggioso giornale antimafia che abbia mai visto la luce del sole: I Siciliani. E venne ucciso a gennaio, appunto. Il 5 gennaio del 1984. Nell’ultima intervista rilasciata a Enzo Biagi, il 28 dicembre 1983, cioè una settimana prima di morire, ribadiva ciò che aveva sempre detto: i veri mafiosi stanno in Parlamento, siedono su scranni comodi e sicuri, al riparo da colpi di tosse e di lupara, lontani dalla calca, con le loro facce indifferenti a tutto, i loro ghigni famelici e le mani viscide come serpenti a sonagli. Loro, i politicanti, sono lì. A Roma, a Palermo, a Milano, a Napoli. A volte tirano i fili, altre volte sono essi stessi burattini, pupi di pezza. Fanno comunque il loro lavoro. Non è difficile in fondo: basta avere un po’ di pelo sullo stomaco e saper rinunciare pressoché definitivamente a quella cosa ingombrante che si chiama dignità. Il resto viene da sé. Il potere, i voti, le raccomandazioni da dare e ricevere, i soldi, gli appalti, l’ammissione ai salotti buoni della gente influente e discreta ed ai salotti meno buoni ma utili delle serate televisive, le cene con i personaggi altolocati finché non diventano loro stessi i personaggi altolocati che richiamano l’attenzione delle plebi. E poi i codazzi, le interviste paludate, le verità da non dire e le menzogne da ammannire, le auto blu e i fiocchi rosa, i nastri da tagliare e quelli da registrare, le puttane da comprare e quelle da zittire, i giornali da tenere in pugno e quelli da stritolare. Insomma, il solito tran tran. Tutto questo hanno il coraggio di dire i giornalisti come Fava o mio padre. In fondo la passione per la verità e per la giustizia è quella che accomuna simili uomini. Che sono molto più rari di quello che si possa immaginare. E quando ne nasce uno – di solito ogni venti trent’anni - bisogna tenerselo stretto, difenderlo, tutelarlo. Perché difendere lui significa difendere noi. Noi tutti, noi che vogliamo essere liberi tra liberi.<br />Mio padre diventò giornalista professionista nel 1968. A 43 anni. Tardi, se si vuole. Fino ad allora aveva collaborato con la Sicilia di Catania, poi con l’Ansa ed, infine, con il Giornale di Sicilia di Palermo. E qui avviene la svolta della sua vita. Infatti, gli affidano la cronaca giudiziaria. Che per mio padre diventa una sorta di droga. Vi si lancia con tutta l’energia che ha in corpo, e ne ha tanta… ve l’assicuro. Vuole scavare, capire, informarsi ed informare, non accontentarsi delle paludate pappine preriscaldate preparate dalle autorità, dai giudici, dalle agenzie di stampa di regime. E no, lui non è così. Lui, nelle cose, ci va fino in fondo. Fino all’esasperazione se è necessario. Uno dei fatti più sconvolgenti che deve raccontare e di cui deve interessarsi è la strage di Ciaculli del giugno 1963, quindi quando non era ancora un professionista. E già lì capisce che qualcosa sta cambiando, anzi si è rotto. Infatti quella è la strage che viene annoverata come la punta massima raggiunta dalla cosiddetta prima guerra di mafia. La conoscete la strage di Ciaculli? Quella dei carabinieri? No? E, com’è possibile? Non vi insegnano niente a scuola? Allora, se mi permettete, ve la racconto io.<br />Dunque, siamo nel 1963. Già da alcuni anni è in atto una guerra di mafia senza quartiere per il controllo degli appalti e del traffico sigarette di contrabbando e di droga, eroina soprattutto. La stessa droga di cui aveva parlato Cosimo Cristina, ricordate? Bene, le famiglie dei Greco e dei La Barbera erano le protagoniste di questa faida. Pare che tutto fosse iniziato con un carico di eroina, procurato dal boss Calcedonio Di Pisa, ma che poi era stato sabotato all’arrivo a New York. Di Pisa venne fatto fuori il giorno di S. Stefano del 1962. Uno di quelli che scelse di stare coi Greco fu Cesare Manzella, un lontano zio di Peppino Impastato. Erano tutti di Cinisi. La strage di Ciaculli invece iniziò a Palermo centro, a dire il vero. E cominciò quando alcuni uomini del boss Pietro Torretta, dei La Barbera appunto, rubarono una Giulietta e la insacchettarono ben bene di tritolo, con un congegno ad orologeria che la facesse esplodere al momento giusto. Con un filo d’acciaio collegarono poi lo sportello del bagagliaio alla carica, in modo che tutto facesse boom appena qualcuno avesse tentato di aprirlo. Ad ogni modo, l’auto partì. Diretta alla villa dei fratelli Greco. Solo che, per strada, accadde una cosa abbastanza normale, ma, in quel momento, assolutamente imprevista: si bucò una gomma. Capita, no? A voi è capitato qualche volta? A me un sacco di volte. Bene, a questo punto, il commando non aveva scelta: o ritornava indietro, a Palermo, ma il timer era stato già azionato e quindi il rischio che non facessero in tempo era molto concreto, oppure cambiavano la gomma, ma non potevano aprire il bagagliaio sennò, anche qui, saltava in aria tutto. Così decisero di mollarla lì dove si trovava. Semplicemente. Subito dopo, qualcuno entrò in una cabina telefonica e chiamò i carabinieri, avvisando che c’era questa Giulietta sospetta, con gli sportelli aperti. Che venissero a darci un’occhiata. Dimenticarono, però, un piccolo particolare: di dire che l’auto era imbottita di tritolo. Qualcuno, addirittura, dopo il fatto, ha ipotizzato che no, l’auto non fosse diretta ai Greco, ma che volesse colpire proprio la parte migliore delle forze investigative palermitane. Insomma, far fuori d’un colpo solo e senza alcun rischio i migliori investigatori, carabinieri, poliziotti, che lo Stato poteva schierare in quel momento contro la mafia. Tesi, a dire il vero, non del tutto infondata, poiché per poco questo non accadde davvero. Ma continuiamo. Sul posto dove c’era la Giulietta arrivarono il maggiore Favalli, comandante della quadra omicidi dei carabinieri, e il commissario Madia, comandante la squadra mobile. Osservarono la macchina, guardarono sotto, videro la gomma a terra, videro il filo che collegava alcune bombole con la batteria, ma non toccarono nulla. Chiamarono invece i tecnici del comando di artiglieria di Palermo. Poi, arrivò una chiamata: da un’altra parte di Palermo c’era stata una sparatoria e loro servivano là. Così dovettero andare via. Sul posto rimasero sette persone: il tenente dei carabinieri Mario Malausa, il maresciallo dei carabinieri Calogero Vaccaro, il maresciallo di polizia Silvio Corrao, i carabinieri Marino Farbelli ed Eugenio Altomare, un soldato di artiglieria, Giorgio Ciacci, e il maresciallo artificiere dell’esercito Pasquale Nuccio, chiamato perché provvedesse a disinnescare l’ordigno. <br /> Il maresciallo Nuccio lavorò per un’ora abbondante con grande precauzione, facendo attenzione ad ogni cosa, e finalmente riuscì a smontare il meccanismo che collegava l’esplosivo alla batteria. “Tutto a posto, maresciallo?” gli chiese Malausa. “Sì e no, – rispose Nuccio – qui ho finito, ma bisognerebbe aprire il cofano. Ma io non mi fido. Come facciamo a sapere cosa c’è dentro?”. Malausa gli fece un piccolo sorriso di sufficienza: “Maresciallo, stiamo invecchiando, eh? Che ci vuole. Basta un po’ di coraggio e il cofano si apre…” Così si avvicinò, col pollice premette il bottone dell’apertura e contemporaneamente spinse all’insù lo sportellone. Aveva ventiquattro anni, Mario Malausa. Era torinese. Di un’altra parte d’Italia, di un altro mondo. Dove gli uomini sono forse più ingenui o corretti. Sicuramente meno abituati a pensare al male che si aggira tra noi mortali. O forse non lo soccorse la fantasia, in quel momento. Che ne sappiamo? Il portabagagli si alzò leggermente. Il giusto per farne venir fuori l’apocalisse. Un lampo. Alto almeno venti metri. Una deflagrazione che si udì a chilometri di distanza. L’auto scomparve. Al suo posto un cratere profondo quattro metri. L’auto venne ingoiata dal nulla, sì, e con essa i sette uomini. Di loro non rimase nulla. Del maresciallo Corrao, uno degli investigatori più bravi di Palermo, ritrovarono solo una scarpa, la cinghia dei pantaloni, la fede nuziale e la fondina della pistola. Il tutto lo consegnarono alla moglie. Era quasi famoso in città, Corrao. Era un uomo schivo e malinconico. Diceva spesso di aver sbagliato mestiere e che avrebbe voluto fare lo scrittore. Amava Tomasi di Lampedusa, Moravia, Pavese, Shakespeare, Pasolini. E su questi autori meditava, leggeva e litigava, spesso alla Libreria Flaccovio, il cenacolo degli intellettuali palermitani. Del tenente Malausa, quello che aveva aperto il bagagliaio, trovarono una stelletta di acciaio del bavero e la spallina con i gradi di tenente. Era un ex ufficiale dei carristi, alto, temerario, spavaldo, un atleta che correva i cento metri in qualcosa come undici secondi. Tutto quello che recuperarono di lui lo consegnarono alla madre in una busta d’ufficio gialla. Del carabiniere Eugenio Altomare fu rinvenuto solo il berretto e l’anello nuziale. Dentro l’anello c’era scritto: ‘Per tutta la vita con te’. Si era sposato sei giorni prima. Ancora oggi girano le foto scattate il giorno dei funerali, a Palermo. Le bare adagiate su dei camion. Le corone di fiori alle fiancate. Ma si stenta a credere che dentro quelle bare, in realtà, non ci fosse praticamente nulla. <br />Questo fatto cominciò a raccontarlo mio padre. Raccontò il dolore dei militari che per i successivi ventiquattr’ore si aggiravano storditi sul luogo del delitto, delle loro dita che scavavano nella terra bruciata alla ricerca di qualche misero resto umano, delle loro lacrime che scendevano su guance arse dal sole, increspate da barbe lunghe, devastate da un dolore inatteso e sconvolgente. Questo raccontò mio padre. Raccontò di quel vecchio veneziano, comandante di tutte le forze armate della Sicilia, un uomo che aveva combattuto quattro guerre, che ordinò a un suo generale di arrestare tutti i delinquenti e, se necessario, di sottoporli a tortura per farli parlare. Raccontò dell’idea, avanzata qualche giorno dopo, di dotare i poligoni di tiro di sagome raffiguranti mafiosi, con tanto di coppola e lupara a tracolla, per allenare i militari di leva a sparare al bersaglio. Ah, un’ultima annotazione: i responsabili della strage, mandanti ed esecutori, non sono mai stati trovati. <br /><br />Nel 1970 successe qualcos’altro, a Palermo. Capitò qualcosa a un giornalista, molto apprezzato da mio padre, anche se lavorava per il giornale concorrente, ‘L’Ora’ di Palermo. Questo giornalista si chiamava Mauro De Mauro. De Mauro non era siciliano, anche se molti lo pensavano e lo pensano ancora. Era di Foggia. Aveva avuto un passato di repubblichino, aveva combattuto nella X MAS del principe nero Junio Valerio Borghese e si era trasferito nel capoluogo siciliano all’indomani della guerra. Non era un giornalista come gli altri. Diciamolo subito. Era molto meglio. Nel ’70 aveva 49 anni. Lavorava come redattore e inviato speciale al giornale comunista L’Ora, come già detto. Negli ultimi tempi era stato messo ad occuparsi di sport, anziché di attualità. La decisione era apparsa strana. Si mormorava anche che stesse per andare via dall’Ora per assumere l’incarico in un altro giornale e che quindi era stato spostato perché il suo allontanamento si notasse il meno possibile. Si diceva, si mormorava. Chissà! La sua carriera era stata folgorante. Dotato di un bagaglio culturale di tutto rispetto, aveva dalla sua uno stile moderno ed efficace. Diretto, senza arzigogoli e contumelie. Era uno spirito avventuroso, curioso, facile ai rapporti umani, con un fiuto infallibile per le notizie. Era conosciuto da tutti, soprattutto in Sicilia. Molti lo ammiravano, molti altri lo temevano. Tanti lo odiavano, probabilmente. Aveva conoscenze e infiltrati in tutti i settori della pubblica amministrazione, in tribunale, negli ambienti della polizia e dei carabinieri, nelle banche e, forse, anche tra i criminali. Per più di dieci anni De Mauro lavorò come un ossesso. Viaggi, articoli, interviste, ricerche. Combatteva, denunciava, scriveva, indagava. Aveva capito che non c’era attività economica, commerciale, politica che non fosse in qualche modo influenzata dalla mafia. E scoprì anche la forza, la potenza di questa organizzazione. Gente che veniva eletta in Parlamento e si trovava la strada per Roma lastricata di voti mafiosi, integerrimi imprenditori che, in realtà, facevano lauti affari grazie agli appalti truccati e alle benevolenze mafiose, preti che confessavano i mafiosi e facevano la spia per le famiglie rivali, uomini di finanza che trafficavano droga in un colossale, ed, all’epoca, ancora in parte sconosciuto, carosello internazionale degli stupefacenti. E poi c’era il contrabbando di tabacco, gli appalti truccati delle esattorie, il giro delle puttane, i soldi che andavano e venivano per la ripulitura, quelli che restavano a Palermo per la costruzione di nuovi, orrendi quartieri ghetto grigio-topo senza un albero o una speranza. De Mauro capì. Capì che la mafia stava dietro a tutto questo. E non solo dietro. Spesso, anche davanti. E proprio per questo faceva più paura. Lui, invece, era un giornalista scomodo, uno di quelli che i fatti propri non se li sanno proprio fare. La sera del 16 settembre 1970, dieci giorni dopo aver compiuto 49 anni, arrivò davanti al portone dello stabile in cui abitava, parcheggiò l’auto per salire a casa, dove l’aspettavano per la cena. Affacciati al balcone, la figlia e il fidanzato assistevano alla scena. De Mauro uscì dalla macchina e venne avvicinato da tre persone. Lo invitarono a salire sulla loro auto. De Mauro montò su. Senza accenni di fastidio o ribellione. L’auto ripartì. Di lui non si è saputo più nulla. Ancora oggi, a distanza di 40 anni. Nulla. Volatilizzato. Qualcuno, a distanza di tanti anni, ha rivelato che venne sciolto nell’acido. Ma la domanda, oggi, è un’altra: perché? Perché farlo scomparire? Secondo alcuni, perché era venuto a conoscenza del tentativo di colpo di stato organizzato dal suo ex comandante Junio Valerio Borghese e poi effettivamente tentato l’8 dicembre di quello stesso anno. Secondo un’altra versione, la sua scomparsa sarebbe stata legata alle indagini intorno al traffico di droga. Però, l’ipotesi più interessante resta la terza. Cioè quella collegata alla morte, nel 1962, di Enrico Mattei, il presidente dell’ENI. Questo sospetto prese consistenza quando, subito dopo il suo rapimento, gli inquirenti si accorsero che, dal suo cassetto in ufficio, mancava un nastro con la registrazione dell’ultimo discorso tenuto a Gagliano Castelferrato da Mattei. Qualcuno allora si ricordò che qualche giorno prima di scomparire, De Mauro aveva parlato di un affare importantissimo, uno scoop senza precedenti, a cui stava lavorando. Tra l’altro, nella vicenda Mattei, De Mauro si era trovato impigliato un po’ per caso quando il regista Francesco Rosi lo aveva contattato in occasione proprio della lavorazione del film su Mattei: Il caso Mattei, appunto, uscito poi nel 1972. Aveva scoperto qualcosa di clamoroso sulla morte del presidente dell’ENI? Può essere. Aveva scoperto che forse non si era trattato di un incidente? Forse. E, se era stato così, chi aveva voluto la morte di Mattei, chi era il mandante e chi l’esecutore? Questo, probabilmente, non lo sapremo mai. De Mauro, l’unico forse a poterci aiutare, venne zittito in tempo. Come al solito. Ma io che parlo di Mattei, sto dando per scontata una cosa: che voi sappiate chi era Mattei. Lo sapete? No? Adesso ce lo facciamo descrivere da Giorgio Bocca. Mattei, dice Bocca, era “uno di quegli italiani imprendibili, indefinibili, che sanno entrare in tutte le parti, capaci di grandissimo charme come di grandissimo furore, generosi ma con una memoria di elefante per le offese subite, abili nell'usare il denaro ma quasi senza toccarlo, sopra le parti ma capaci di usarle, cinici ma per un grande disegno.” Ecco, avete capito? No ancora? Mattei era, come già detto, il presidente dell’ENI. Lo avevano incaricato di liquidare l’Agip, l’azienda fondata dal fascismo nel 1926, ma lui, invece di smantellarla, le aveva costruito intorno l’ENI, di cui la prima era diventata l’asse portante. Poi si era accordato con l’Unione Sovietica by-passando il potere delle Sette sorelle petrolifere americane. La cosa le aveva irritate non poco. E ancora, aveva fatto accordi direttamente con i paesi produttori di petrolio, portando gli italiani nel deserto ad estrarre petrolio direttamente e riservando per sé il 25% dei profitti, ma lasciando il 75% ai paesi produttori. Una rivoluzione. E gli americani che rosicavano. Non era un uomo odiato. Ma quei pochi che volevano la sua morte erano gente che poteva permettersi di andare al sodo. Gente potente, cinica, glaciale. Gente che non guardava in faccia nessuno. E non portava rispetto per nessuno. Men che meno per uno che rompe le palle. Il 27 ottobre del 1962, Mattei lasciò l’aeroporto di Catania, dopo un viaggio a Gela per visitare il megastabilimento dell’Agip. Si trovava a bordo di un piccolo velivolo, un Morane Saulnier, insieme al pilota Irnerio Bertuzzi e al giornalista americano William McHall. Ad una trentina di chilometri da Milano, sul cielo di Bascapè, mentre infuriava una tempesta, l’aereo incominciò a rullare a vuoto, si inclinò da un lato e venne ingoiato da un’esplosione. Un contadino disse di aver visto quell’esplosione e poi la fiammata a terra del disastro. Ci vollero tre giorni per ritrovare i resti dei tre uomini del Morane. Immediatamente corse voce del sabotaggio. Il fratello di Mattei, Italo, sporse denuncia alla magistratura, sostenendo che il bimotore fosse stato danneggiato mentre si trovava sulla pista dell’aeroporto di Catania. Secondo lui, qualcuno, magari un esperto di aerei a reazione travestito da ufficiale dei carabinieri, si sarebbe accostato al bimotore ed avrebbe piazzato dentro uno dei motori un ordigno ad orologeria. Sarebbe dovuto scoppiare dopo due ore esatte di volo, cioè a pochi minuti dall’atterraggio a Milano. Come effettivamente avvenne. Nel film del ’72, Rosi fece in parte sua questa tesi. Ma non la magistratura, che ben presto optò per l’ipotesi del… non del suicidio… ma dell’incidente. <br /><br />Un’altra domanda: sapete dove viene stampato il Giornale di Sicilia? Esatto, a Palermo. E lì andò a lavorare papà nel 1968. In realtà, lui, a Palermo, ci stava da quando aveva 15 anni. Dopo i primi due anni di ginnasio a Siracusa, decise di trasferirsi a Palermo, da certi zii che lì abitavano. Si innamorò della città, del suo caos deflagrante, della sua aria mediterranea e sonnolente, dei suoi ritmi paludati, della sua saggezza cinica e meditabonda. Ci rimase. Facendo il collaboratore di varie testate. Poi, nel ’68 la svolta. Il ’68! Un’epoca, un mondo. Un mondo che nasce e uno che crolla. E non solo in senso metaforico. Visto che il ’68 fu anche l’anno del Belice. Ma su questo torneremo. <br />Mio padre lì fu il primo in molte cose. Fu il primo, ad esempio, a scrivere di un nuovo, feroce, boss in ascesa, Totò Riina. Fu il primo e l’unico a intervistarne la moglie, Ninetta Bagarella, nel 1972. Fu il primo a descrivere dettagliatamente la mappa delle famiglie mafiose di Palermo e dintorni. <br />Dopo il primo grande processo nel 1969, che le diede un colpo non indifferente, alla mafia l’occasione per riaversi fu data dal terremoto del Belice. Miliardi su miliardi stanziati da Roma per la ricostruzione su cui le famiglie mafiose non ebbero difficoltà a mettere le mani. Attorno a questi soldi si scatenò la lotta senza quartiere che insanguinò la Sicilia. E mio padre scriveva di tutto questo. Intuì che qualcosa s’era rotto. Definitivamente. Come scrisse nel dossier del marzo 1979, la vecchia mafia si era modernizzata ed aveva ampliato e ramificato i propri interessi. Dal settore degli autotrasporti a quello del contrabbando di droga, sigarette, valuta, preziosi. Facevano viaggiare in mezzo mondo le casse di sigarette di contrabbando e la droga, il vino sofisticato nel porto di Palermo e i denari da ripulire che finanziavano attività apparentemente innocue o persino utili: agenzie turistiche, discoteche, ristoranti, saune, supermercati, grandi magazzini, ma anche la costruzione di strade, autostrade, palazzi di tribunali, banche, stadi, caserme, scuole, condomini, chiese. <br /> Nel ’77 arrivarono alla redazione del Giornale di Sicilia il direttore Rizzi e il caporedattore Lucio Galluzzo. Due mosche bianche in un ambiente in cui i giornalisti vanno a cena coi mafiosi e fanno i galoppini per i politici dei clan. Mio padre conosceva tutti. O così credeva. Fin quando non scopriva delle cose strane. Tipo: gli capitava tra le mani una foto e scopriva che tizio o caio, che magari stava seduto davanti alla sua scrivania al giornale, la sera andava a cena con qualche boss mafioso, un Greco, un Riina, un Badalamenti. Proprio quel tipo che scriveva insulsi resoconti di cronaca, insipidi e annacquati come la liscivia, era stato fotografato alla cena dell’onorevole x a brindare assieme al mafioso y. Ovviamente, attorno a mio padre e ai sue due nuovi colleghi ben presto si formò un’aria… come dire?... rarefatta. Il silenzio calava come un macigno ogni volta che si avvicinavano, li scrutavano guardinghi come si fa con i seminatori di discordie e le spie. Nel ’77 io avevo 11 anni. Mi ricordo – il ricordo della nostalgia, direi – il ticchettio perenne della macchina da scrivere. E mio padre che fumava dietro di essa. Poi si alzava, andava in cucina a bere un sorso d’acqua e si rimetteva al lavoro. La mattina usciva presto. Un caffè e via. Sotto braccio, la solita cartella, piena, immagino, delle cose che aveva scritto durante le lunghe ore notturne. Non so nemmeno io quando riuscisse a mangiare. Molti degli articoli che pubblicò in questo periodo sono dedicati al Belice, alla sua ricostruzione e soprattutto all’affare della diga Garcia. “Quando nell’inverno del 1968 la terra del Belice trema – scriveva mio padre – pochissime persone riescono a immaginare quali immense fortune saranno ricavate dalla disperazione del terremoto. Antichi paesini di pietra adagiati da secoli nella vallata del fiume Belice vengono distrutti per sempre. Ben altre sciagure sono all’orizzonte in quel fazzoletto di Sicilia dove fra le viscere della terra si levano i disperati lamenti dei sopravvissuti.” Non male, che ve ne pare? Il sisma distrusse 21 comuni. Ma il peggio doveva ancora arrivare. Scoppiò da lì a poco una guerra di mafia senza precedenti, cruenta, feroce, che insanguinò e violentò un intero territorio. Tutti sembravano impotenti. Anche perché tutti sembravano non capire. Voltavano la testa da un’altra parte, piegavano le schiene, camminavano carponi per non vedere, per non sentire. Mio padre no. Lui la sua battaglia voleva combatterla. E combatterla fino in fondo. Prese le sue armi di ordinanza, le sole che conosceva e conservava, penna e block-notes, e andò nella valle del Belice. Voleva andare a vedere una cosina. Voleva andare a vedere con i propri occhi il posto dove sarebbe sorta la diga più grande del Sud, un invaso da 100 milioni di metri cubi che avrebbe dato acqua a tre province e undici comuni. Diga della Garcia, si chiamava. Ed ecco che, parlando e chiacchierando con i contadini, con la gente di quei posti, col barbiere e col salumiere, con il ragioniere e con il panettiere, scoprì il paradigma. Cioè la struttura portante, il ‘contesto’ direbbe Sciascia, che generava e faceva proliferare mafia e malaffare. Scoprì il meccanismo infernale che legava insieme politici, mafiosi, affaristi, impiegati, banche. Il tutto per metterla in culo alla povera gente. L’humus della corruzione. L’humus e il verminaio. Cos’era accaduto? Era presto detto. La Regione, grazie allo statuto speciale di cui dispone, varò una serie di leggi finalizzate a favorire la realizzazione dell’opera. Costo, coperto dall’Ente regionale e dalla Cassa per il Mezzogiorno: 350 miliardi di lire, una cifra esorbitante per l’epoca. Ma, direte voi, se serve, serve. No? E’ vero, concordo io. Però, c’è un piccolo però. Le terre che vennero individuate per l’esproprio erano seminativi e latifondi incolti, appartenenti a grossi proprietari assenteisti, di quelli che non si erano mai occupati di farli fruttare, di dar lavoro, di sfruttarli in qualche modo. Però era gente ammanicata politicamente con quelli che sedevano a Palermo, tenevano saldi legami, diretti o indiretti, con altra gente poco raccomandabile e si onoravano della loro amicizia invitandoli nei loro salotti buoni, dove tra un drink e un cannolicchio, tra donne ingioiellate e camerieri in livrea, si fanno affari e si creano fortune politiche e strategie di governo. Tornando ai terreni, però c’è da dire che, fin qui, in fondo, non c’è nulla di eccezionale. Se questi terreni fossero stati espropriati in base a regole e cifre trasparenti e soprattutto in base a quello che effettivamente valevano (cioè poco o nulla, perché abbandonati o incolti), effettivamente non ci sarebbe stato nessun problema. Ma le cose ovviamente non andarono così. Le terre nel frattempo cambiarono velocemente padrone. Mio padre scoprì che i vecchi proprietari avevano venduto a prezzo di pascolo, cioè a circa 300 mila lire per ettaro, e adesso i nuovi proprietari – per volere della Regione – si trovavano indennizzati con circa 13 milioni per ettaro: quaranta volte di più! Mio padre mise tutto nero su bianco. Dal 4 al 21 settembre 1977 pubblicò in sei puntate la sua inchiesta sul Giornale di Sicilia. Il suo lavoro svelava la corruzione e gli sprechi dietro il meccanismo della decisione di costruire la diga e dietro la sua costruzione. “Noi non abbiamo occhi per piangere – gli dice la gente vittima del sisma - e qui costruiscono ‘na cosa che manco in America!” Ma Mario Francese, mio padre, faceva anche i nomi. Faceva i nomi di quelli che avevano rastrellato i terreni. E che si sarebbero rivelati i nuovi padroni della Sicilia: i ras delle esattorie Nino e Ignazio Salvo, ma anche Totò Riina, la primula rossa sanguinolenta e spregiudicata di Cosa Nostra. Raccontò tutto, mio padre. Fu il primo a fare il nome di Riina, a parlare della scalata dei corleonesi, dei loro appalti, dei loro traffici, dei loro investimenti, dei loro complici, persino delle società inventate di sana pianta per l’occasione, come la ‘Ri.Sa’, dalle iniziali di Riina Salvatore. <br />Cosa Nostra non si fece attendere. Il primo ad essere colpito è Lino Rizzi, il direttore del giornale. Gli fanno esplodere la macchina. La redazione resta freddina. Guardinga, poco partecipe. Anzi, per nulla partecipe. Dopo tocca al capocronista Lucio Galluzzo, chiamato al giornale proprio da Rizzi. Fu proprio Galluzzo che incaricò mio padre di occuparsi della diga Garcia. A Galluzzo bruciarono la villa in campagna. Quando la notizia giunse in redazione, i colleghi si mostrarono quasi infastiditi. Pochi gli manifestarono la benché minima solidarietà, molti gli fecero il vuoto attorno. Ma chi cazzo glielo faceva fare, a lui? Che cosa s’era messo in testa, voleva drizzargliele lui le zampe al cane? I più tacevano, giravano alla larga, fingevano. Fingevano di non sapere, fingevano di farsi i fatti propri, fingevano di essere uomini ed erano solo mediocri pagliacci. E questo mentre mio padre toccava con mano la disperazione di tanti uomini e donne, la loro delusione, la loro lotta per la dignità e per la sopravvivenza in quell’arabesco in rilievo noto come valle del Belice. Descriveva le loro speranze vane, le loro lacrime che si asciugavano al sole ed al gelo, il disinteresse delle pubbliche istituzioni, le promesse ed i voti che facevano la fortuna di grassatori e sparvieri, parlava della loro rabbia, della loro indignazione. E della loro solitudine. Mentre le baracche venivano a poco a poco sistemate e curate come se fossero le vere, definitive, case. Senza illusioni, con realismo e pragmatismo. E dopo quasi trent’anni, poco o nulla è cambiato. Neanche la diga s’è fatta, per la cronaca. <br />Adesso parliamo un po’ d’altro. Non vi voglio dare l’impressione di uno che si occupa solo di mafia e cose schifose del genere. Anche perché a Palermo, a Catania, a Messina, la gente vive, lavora, s’innamora, fa figli, muore anche di morte naturale. E’ gente abbastanza normale. Come tutta la gente del mondo. Recentemente ho interrotto una relazione. Una storia d'amore insomma, durata tanto, anche troppo, e che evidentemente, visto che è finita, amore non era più. Ma ti rimane lo stesso un vuoto: sono le abitudini, anche quelle cattive, anche quelle che sapevi perfettamente che erano cattive, pessime abitudini, ma che non riesci a troncare prima. Quando ti prende la nostalgia e ti senti un po' più solo cerchi gli amici, quelli che hai trascurato un po’ per via di lei. Ma quando l'incontri capisci che non stai cercando loro, in fondo tu stai cercando semplicemente te stesso. E così ti rendi conto che vuoi stare un po’ da solo. Già, stare un po' da soli non fa sempre male. E tra una solitaria passeggiata e l'altra capita che ti infili nella tua libreria preferita. E tra un libro e l'altro ti accorgi di lei. Una che lavora lì. Ma da quanto? Non l'avevo mai vista. Forse lavora da poco o forse da molto, forse ero io ad avere gli occhi ‘improsciuttati’ da una finzione d'amore. Sta di fatto che ti avvicini a lei per chiederle qualche consiglio su più di un libro da regalare (siamo in pieno periodo natalizio) e qualche amica intelligente ce l'ho anch'io. E' lei che con la sua semplicità e cordialità mi aiuta e mi consiglia nelle scelte. La ringrazio, cordialmente la saluto e vado via. Ma io vado via, lei no: resta dentro me. Mi restano i suoi occhi semplici e profondi, la sua voce, la sua preparazione e la sua sensibilità: “Cosa le è successo al braccio, si è fatto male?” Mi aveva domandato. <br />“Nulla di grave, sono caduto, ne avrò ancora per poco”.<br />Ma il fatto che lo abbia notato e me lo abbia chiesto mi ha dato l'impressione di essere di fronte ad una donna dolce e sensibile. Sono tornato in libreria il giorno dopo, e il giorno appresso. Dal lei siamo passati al tu. Non conoscevo niente di lei, soltanto il suo nome, ma sapevo che mi piaceva e speravo di poterla rivedere fuori dalla libreria, così per scambiare quattro chiacchiere e per capire se davvero era come l'avevo immaginata. Incombevano le feste natalizie, la libreria era sempre affollatissima: “Cazzo - pensai di colpo - e se sta lavorando soltanto per queste festività? Rischio di non vederla più”. Dovevo necessariamente osare un po' di più. Ed ecco la geniale pensata: le compro il mio libro preferito, le scrivo una dedica, metto il mio biglietto da visita dentro al libro, lo faccio incartare in confezione regalo, poi mi avvicino a lei che era incasinatissima (antivigilia di Natale) e le dico: “Ciao, questo è per te.” <br /> “Oh grazie - risponde lei - ma scusa se non posso aprirlo adesso - vedi ho un sacco di persone”. “<br />“Certo, volevo semplicemente farti gli auguri di Natale, magari torno un altro giorno, finite le vacanze. Ciao e auguri di nuovo”.<br />Esco dalla libreria contento per avere fatto un primo passo verso l'ignoto. Ma dura poco: l'ignoto presto, anzi prestissimo diventa noto. Incontro Francesca tra circa duecentomila persone che passeggiavano al centro e che approfittavano della chiusura delle strade del centro storico per le festività natalizie. Io e Francesca non ci vedevamo da almeno un anno. Ma fortuna, sfiga o semplicemente per volere del destino ci siamo rincontrati in quel punto, a quell'ora, in mezzo a cotanta folla. “Ciao Francesca come stai?”. E lì a raccontarci quasi un anno di vita, fino ad arrivare alla libreria ed al mio incontro.<br />“Ah, sì la conosco, è molto carina. Ma guarda che è fidanzata con un ragazzo altrettanto carino. Anzi ti dico di più, convivono e lui fa il barbiere.”<br />“Basta Francesca! Praticamente hai preso un coltello, lo hai messo ad ardere al fuoco e mi hai dato una pugnalata in pieno petto: te ne sei accorta o no?”<br />Comunque il fidanzato deve essere un uomo intelligente dato che sta con lei. Che sia mai il barbiere di Siviglia? <br /> Insomma c’è sempre qualcuno che si mette sulla nostra strada, no? Io avevo tanti desideri, da piccolo. Vedevo mio padre come tutti i bambini vedono il proprio: un eroe, un invincibile. Non sapevo cosa facesse esattamente. Ogni tanto sentivo che diceva di andare al giornale. Mi immaginavo che entrasse dentro un giornale vero, di carta. Magari per sistemare una colonna o una foto. Poi ho incominciato a capire. E quando ho iniziato a capirlo, ecco che lui non c’era già più. <br />Dopo la morte di mio padre, il Giornale di Sicilia pubblicò il suo dossier a puntate. Il 20 maggio 1979 venne rivelata l’indagine che mio padre aveva condotto per l’omicidio del colonnello Giuseppe Russo. Un’altra vittima di quella maledetta diga, in fondo. Il colonnello Russo aveva scoperto che la mafia aveva messo le mani sull’affare dell’invaso. Secondo mio padre, l’interesse del militare per la storia della diga era venuto fuori per una storia di amicizia personale. Quelle storie di amicizie vere e disinteressate, tipiche di un mondo ancora romantico di intendere le relazioni umane che, a volte, caratterizzano gli animi siciliani. Infatti, il colonnello aveva un caro amico, Rosario Cascio, che aveva vinto legittimamente l’appalto per la realizzazione dell’opera. Però, con pressioni, minacce e violenze, Cascio era stato costretto a mollarlo. Russo intervenne per capire. Cominciò a indagare. E questo non piacque alle famiglie in ascesa, quelle che avevano il controllo del territorio e dei denari pubblici. <br /> Il 20 agosto 1977, alle ore 21.30, il colonnello Russo uscì dalla sua casa estiva di Ficuzza, a pochi chilometri da Palermo. Uscì per fare due passi. Lui, la moglie, la signora Mercedes Berretti, e la piccola Benedetta avevano appena terminato di cenare. Avevano lasciato il capoluogo siciliano nel pomeriggio. Erano iniziate le loro vacanze, a Ficuzza. Vacanze semplici. Aria pura, niente traffico, pochi svaghi e lunghe passeggiate nei boschi dei dintorni. La signora Mercedes decise di restare a casa a riordinare. Il colonnello decise di andare in piazza, invece. Prima però passò a chiamare un amico che abitava poco lontano, l’insegnante Filippo Costa. In maglietta e calzoncini, sotto il cielo stellato, i due amici camminavano a cavallo di un distratto ciacolare, fiancheggiando il porticato della caserma della Forestale, diretti al bar del paese. Al bar entrò solo Russo. Fece una telefonata mentre Costa attendeva fuori. Poi ripresero la passeggiata. Un testimone, Felice Crosta, disse di averli visti alle 22, che andavano verso la parte alta della piazza lungo il viale parallelo a quello principale. Qualcun altro, però, vide un’altra cosa: una ‘128’ verde che procedeva lentamente, come in cerca di qualcosa. Ad un certo punto, la macchina fece una svolta ad U e si arrestò davanti alla casa di Russo. Ormai i due amici erano vicini all’auto verde. Non se ne resero conto, probabilmente. Si fermarono un attimo. Russo tirò fuori una sigaretta ed i fiammiferi dal taschino della camicia, ma non ebbe neanche il tempo di accendere. Dalla 128 scesero tre o quattro uomini. Lentamente, per non destare sospetti, si avviarono verso i due. Appena furono vicini, aprirono il fuoco con le calibro 38. I killer erano molto tesi. Tanto che uno, nel lanciarsi contro il colonnello per finirlo, gli cadde addosso. Si rialzò immediatamente e, come in preda a un raptus, gli sparò un colpo di fucile in testa. Fu il colpo di grazia. Poi passò all’amico. Mirò anche alla testa di quest’ultimo. Fece fuoco. E andarono via, lasciando sotto il corpo del colonnello Russo un paio di occhiali.<br /> Mio padre scrisse anche di questo. Cronaca, storia e motivi del duplice omicidio. Ma non ebbe il tempo di pubblicarlo. Da vivo, almeno.<br /> La sera del 26 gennaio 1979 mio padre rincasava verso le 22. Aveva lasciato la redazione un’ora prima, salutando i pochi colleghi rimasti con la sua solita frase allegra: “Uomini del Colorado, vi saluto e me ne vado!”. Io ero ancora davanti alla tv. Lui scese dall’auto. Fece due passi verso il portone. Uno gli si avvicinò alle spalle. Sei colpi di P38. In testa. Io sentii i colpi. Li sento ancora dentro di me. Mi sbattono dentro come imposte in balia della tempesta. Mi agito. Non so perché. La voce del sangue, dice qualcuno. Mi allarmai. Mi allarmo. Quei colpi era come se fossero diretti a me, in qualche modo… Corro alla finestra, ma non vedo nulla lì per lì. Poi vedo la gente che si assiepa. Corre verso il portone di casa mia. E poi… tutto diventa più chiaro… e più confuso… Le grida di mia madre, le lacrime, la mano di qualcuno che mi afferra per allontanarmi, io che mi dibatto perché ho capito e voglio correre da mio padre… Lacrime grosse come acini d’uva mi annebbiano la vista… soffoco… mio fratello che non si trova… mia madre che si dimena… la gente che accorre… e poi i carabinieri, la polizia che blocca il traffico… le macchine che si fermano… il suono di una sirena, anzi di due o forse tre… una è sicuramente quella dell’ambulanza… la corsa verso l’ospedale, l’attesa… il responso… e il nulla…. Non so più niente… Sfinito, dentro mi sento solo cenere, arso come un ceppo in un camino. <br /><br /> Quello di mio padre fu il delitto che aprì la lunga sequela di sangue di Cosa Nostra. I cosiddetti ‘delitti eccellenti’ a ripetizione. <br />Dopo mio padre toccò al primo politico, il segretario provinciale della Dc Michele Reina, la sera del 9 marzo 1979. Erano le 22,30 e Reina era uscito dalla casa di un amico col quale aveva trascorso la serata. In macchina lo attendevano la moglie e il figlio. Appena salito, si avvicinarono due uomini. Gli spararono al viso. Secco. Aveva 47 anni.<br /> Il 21 luglio 1979 fu la volta del capo della squadra mobile Boris Giuliano. Stava seguendo l’evoluzione della mafia in holding finanziaria a base di narcotraffico. Era un tipo tosto, Giuliano. Si vantava di poter bloccare, con i suoi uomini, un intero quartiere di Palermo in meno di due minuti. La moglie era partita per ferie il giorno prima. Decise perciò di scendere giù al bar all’angolo, il Bar Lux, per prendere un caffè. E lì lo beccò il killer. Mentre stava pagando. Gli sparò a bruciapelo alle spalle. <br /> Passarono due mesi e il 25 settembre, verso le 8,30 del mattino, venne ammazzato il capo dell’Ufficio Istruzione del Tribunale di Palermo, Cesare Terranova. Era appena tornato in Sicilia, Terranova, dopo due legislature da deputato nelle file del PCI. Tutte le mattine arrivava sotto casa sua una Fiat 131. Era la scorta che lo portava al lavoro. Quella mattina non fece eccezione. All'improvviso arrivò un'altra auto a sbarragli la strada. Ne scesero alcuni killer che aprirono il fuoco con una carabina Winchester e delle pistole. Con lui restò ucciso anche il maresciallo di scorta, Lenin Mancuso.<br />Intanto dell’omicidio di mio padre, di cui si stavano occupando i giudici istruttori Rocco Chinnici e Antonino Caponnetto, nel 1986 il caso venne archiviato. Ma, Cosa nostra non era mica stata con le mani in mano. <br /> Il 6 gennaio 1980, il Presidente della Regione Siciliana l’On. Pier Santi Mattarella uscì di casa e salì in auto insieme alla moglie e al figlio. Stavano andando a messa. Un killer si avvicinò al suo finestrino e gli scaricò addosso un intero caricatore 7,65. Cadde così uno dei simboli istituzionali della lotta alla mafia. Colui che aveva trovato un accordo con Pio La Torre, segretario regionale del PCI, per una strategia per troncare i legami tra mafia e politica. Secondo il collaboratore di giustizia Francesco Marino Mannoia, Giulio Andreotti, oggi senatore a vita e omaggiato padre della patria, era a conoscenza del progetto mafioso di eliminare Mattarella, ma non avvertì né l'interessato né la magistratura. Come faccio a saperlo? Semplice, lo dicono i giudici. Ecco qui la sentenza della corte d’Appello di Palermo sul caso Andreotti. Nella conclusione si legge: <br /><br />“Del resto, ad ultimativo conforto dell’assunto, basta considerare proprio la, assolutamente indicativa, vicenda che ruota attorno all’assassinio dell'on. Pier Santi Mattarella. Anche ammettendo la prospettata possibilità che l’imputato sia personalmente intervenuto allo scopo di evitare una soluzione cruenta della questione Mattarella, alla quale era certamente e nettamente contrario, appare alla Corte evidente che egli nell’occasione non si è mosso secondo logiche istituzionali, che potevano suggerirgli di respingere la minaccia alla incolumità del Presidente della Regione facendo in modo che intervenissero per tutelarlo gli organi a ciò preposti e, per altro verso, allontanandosi definitivamente dai mafiosi, anche denunciando a chi di dovere le loro identità ed i loro disegni: il predetto, invece, ha, sì, agito per assumere il controllo della situazione critica e preservare la incolumità dell’on. Mattarella, che non era certo un suo sodale, ma lo ha fatto dialogando con i mafiosi e palesando, pertanto, la volontà di conservare le amichevoli, pregresse e fruttuose relazioni con costoro(…)”<br />E poi, oggi, dicono che Andreotti è stato prosciolto e che con la mafia non ha nulla da spartire! Che l’hanno processato e fatto penare per nulla, un innocente! <br /> <br />Colui che invece stava conducendo le indagini sulla morte di Boris Giuliano e ne aveva ereditato in parte anche le inchieste era un capitano, tarantino di nascita, si chiamava Emanuele Basile ed era stato mandato a comandare la stazione dei carabinieri di Monreale. Anche lui si era imbattuto nel traffico di droga, anche lui era un carabiniere coi coglioni. La sera del 4 maggio 1980, Emanuele Basile stava aspettando di assistere, assieme alla moglie, ad uno spettacolo pirotecnico per la festa del Santissimo Crocefisso. In braccio aveva la figlia di meno di due anni. Un killer gli sparò alle spalle e poi fuggì in auto.<br /> Il posto di Basile venne preso da un altro capitano, Mario D’Aleo. Anche lui verrà ucciso, il 13 Giugno 1983. D’Aleo era romano. Era ancora più giovane di Basile. Aveva solo 29 anni. Oggi, se qualcuno di voi va a Monreale, magari per vedere la bellissima cattedrale normanna, faccia un salto alla Villa Comunale. ‘Villa Comunale Emanuele Basile e Mario D’Aleo’ si chiama.<br />Ma lo stillicidio non si fermò mica qui. Il 30 aprile del 1982 toccò al segretario regionale del PCI siciliano, Pio La Torre, ed al compagno di partito Rosario Di Salvo. Dopo quest’omicidio venne inviato Dalla Chiesa, in Sicilia. Prefetto con poteri eccezionali. Almeno sulla carta. Ci rimase 100 giorni. Il 3 settembre venne ucciso in un agguato in Via carini. Con lui, caddero anche la moglie, Emanuela Setti Carraro, e l’agente di scorta Domenico Russo. <br />L’anno dopo, il 29 luglio dell’ ’83, la mafia uccise Rocco Chinnici, il primo che si era occupato dell’omicidio di mio padre. Chinnici non era un giudice qualunque. Ex magistrato di Cassazione, era stato nominato consigliere istruttore del Tribunale di Palermo. Era un uomo attivissimo, che credeva nel valore della parola e della cultura per sconfiggere la mafia. Partecipava, quale relatore, a congressi e convegni giuridici e socio-culturali e lavorava assiduamente per coinvolgere voi, i giovani, nella lotta contro la mafia. Fu il primo magistrato a recarsi nelle scuole per parlare a studenti come voi della mafia e dei pericoli della droga. Amava ripetere che “parlare ai giovani, alla gente, raccontare chi sono e come si arricchiscono i mafiosi fa parte dei doveri di un giudice. Senza una nuova coscienza, noi, da soli, non ce la faremo mai.” In una delle sue ultime interviste, Chinnici disse che “la cosa peggiore che possa accadere è essere ucciso. Io non ho paura della morte e, anche se cammino con la scorta, so benissimo che possono colpirmi in ogni momento. Spero che, se dovesse accadere, non succeda nulla agli uomini della mia scorta. Per un Magistrato come me è normale considerarsi nel mirino delle cosche mafiose. Ma questo non impedisce né a me né agli altri giudici di continuare a lavorare.” Non passò troppo tempo da quando pronunciò queste parole. Quella mattina del 29 luglio del 1983 gli piazzarono una Fiat 127 imbottita di esplosivo sotto casa, in via Pipitone Federico. Era Palermo, ma sembrava Beirut. Morì all'età di cinquantotto anni. Con lui morirono il maresciallo Mario Trapassi, l'appuntato Salvatore Bartolotta, e il portiere dello stabile Stefano Li Sacchi.<br />Poi vennero Pippo Fava, Montana e Cassarà, Livatino, Falcone, Borsellino e le loro scorte, don Pino Puglisi, i morti di Firenze e di Milano, Beppe Alfano… Insomma un cimitero. <br /> E io intanto non ho fatto altro che aspettare. Ho aspettato giustizia per mio padre. Per quell’uomo che scriveva senza paure e senza riverenze, un uomo solo con la sua dignità, la sua umanità e il suo coraggio. Sempre a schiena ben dritta. Ho aspettato… E non di morire, come la storia che ci capitò a me ed a mio fratello Totò una vota che eravamo in macchina con nostro padre. Volete sentirla? Eccola.<br /> <br />Mi trovavo seduto sul sedile anteriore della vecchia auto di mio padre. Un mio fratello seduto dietro. Mio padre ci stava portando nella casetta che avevamo in affitto ad Aspra. La casa aveva un grande giardino, direi un vero e proprio terreno di campagna. Quella casa e quel grande giardino sembravano una specie di mini, che poi tanto mini non era, zoo. Papà ci teneva di tutto. Cani, gatti, capretta, galline, uccelli, conigli, ecc...<br />Quella mattina di primavera stavamo andando lì per dare il cibo a tutti gli animali. Arrivati a Ficarazzi, mio padre svolta a sinistra, e procede per una traversina che arrivava al lungomare. Ad un certo punto, da questa strada stretta, dalla parte anteriore di un camion posteggiato sbuca improvvisamente una bambina con una bicicletta. Mio padre con un gesto fulmineo e istintivo riuscì appena in tempo ad arrestare l'auto. La bambina, tranquilla come una pasqua, stava proseguendo la sua passeggiata, quando papà, apre il finestrino e le dice: “E se ti investivo? Devi stare più attenta con la bici quando vai per la strada.”<br /> La bambina con aria inebetita lo guarda e gli risponde: “Ma io aspittava (ma io ho aspettato)”. Basta, mio padre mette la marcia e riparte. Qualche minuto dopo, scoppio a ridere. Preciso che quando ero piccolo avevo una risata che non riuscivo più a frenare ma aveva anche una peculiarità: era contagiosissima. Cosicché sia mio padre che mio fratello scoppiarono in una solenne risata da contagio senza capire in realtà perché stessero ridendo. E più me lo chiedevano, più io ridevo e non riuscivo a prendere fiato per spiegarlo. Intanto tra le risate generali, l'auto proseguiva la sua corsa verso casa. Io seguitavo a ridere: loro appresso a me. Finalmente, quando arrivammo quasi a casa, riuscii a parlare: “Ma che cazzo stava aspettando la bambina, di morire?”<br />Già perché se vogliamo proprio leggere nelle parole e soprattutto nelle intenzioni della bambina, sembrerebbe che si fosse nascosta dietro il camion e che stesse aspettando la prima auto per farsi schiacciare. “Io aspittava!”, aveva risposto a mio padre. Ma aspettava che? La morte? Fortunatamente tutto andò liscio, grazie soprattutto ai riflessi di mio padre. Sono passati tanti anni ma quando, ogni tanto, ripenso a questo episodio, mi scappa ancora un sorriso. Che fessa, quella bambina! Se, si vuole, questa è un po’ la metafora della Sicilia e dell’Italia tutta. Noi, si aspetta. Da Nord a Sud, da Est a Ovest. Si aspetta. Alla Godot. Si aspetta qualcosa. Che cosa? E che minchia ne sappiamo. Aspettiamo solo per aspettare. Forse semplicemente aspettiamo di morire. Piuttosto che vivere di impegno, lotta, progetti, sogni. Vivere per non farsi azzannare, ammazzare, per caciare i farabutti, i mafiosi e i loro tirapiedi e zerbini. Vivere per cambiare davvero. Noi e il nostro mondo.<br />Tuttavia, la mia attesa non è stata vana, pare. Dopo più di dieci anni di sospensione nel dimenticatoio, il fascicolo relativo alla morte di mio padre, Mario Francese, giornalista senza padroni nella Sicilia appecoronata, è stato riaperto. Grazie alle testimonianze di alcuni collaboratori di giustizia. Gli stessi che, a volte, dicono alcuni, non servono. (Forse, chissà?, non servono solo quando incominciano a fare i nomi più compromettenti, i nomi dei politici, dei loro referenti mafiosi e dei loro amici intimi. Non credete?) Ad ogni modo, il 17 novembre 1998, finalmente, il Gip ha firmato nove ordini di custodia cautelare per Totò Riina, Pippo Calò, Bernardo Provenzano, Francesco Madonia, Bernardo Brusca, Antonino Geraci, Giuseppe Farinella, Michele Greco e Leoluca Bagarella. Sono stati accusati di essere gli organizzatori e gli esecutori del delitto di mio padre. Nell’aprile del 2001, il processo, svoltosi con rito abbreviato, ha visto la condanna a 30 anni per Totò Riina, Francesco Madonia, Antonino Geraci, Giuseppe Farinella, Michele Greco e Leoluca Bagarella. Nel processo bis, con rito ordinario, l’altro imputato, Bernardo Provenzano, è stato condannato all’ergastolo. <br /> I giudici della sentenza di primo grado hanno evidenziato che dagli articoli e dal dossier redatti da mio padre emerge – leggo testualmente – “una straordinaria capacità di operare collegamenti tra i fatti di cronaca più significativi, di interpretarli con coraggiosa intelligenza, e di tracciare così una ricostruzione di eccezionale chiarezza e credibilità sulle linee evolutive di Cosa nostra, in una fase storica in cui oltre a emergere le penetranti e diffuse infiltrazioni mafiose nel mondo degli appalti e dell’economia, iniziava a delinearsi la strategia di attacco di Cosa nostra alle istituzioni.”<br /> La mia attesa non sembra essere stata vana. Qualche cosa l’ho combinata pure io. Non solo minchiate, ho fatto in vita mia. <br />Adesso ho deciso di non vivere più da solo. Ho adottato un cagnolino di quasi cinque mesi. L'ho chiamato Jack, non come lo squartatore, ma come il protagonista di un programma radio: un cane sciolto. È successo che un giorno, uno di quelli qualsiasi, vedo un gazebo. Mi avvicino e scopro che erano quelli della Lav (lega antivivisezione). Avevano appresso un cagnolino. Un bastardino tutto beige, con le zampette bianche e il musetto con una strisciolina bianca. Poi gli occhi. Due occhi verdi dolci e profondi come quelli di un bambino. Da un po' di tempo desideravo un cane. Quando lo guardai negli occhi e lui guardò me, non ebbi nessuna esitazione e l'adottai. Oggi sono felice come una pasqua. Jack è un cane intelligentissimo e buonissimo. Gli do tanto, ma ricevo forse ancor di più. È passata una settimana da quando l'ho adottato ma mi sembra che ci conosciamo da sempre. Forse lui stava aspettando me, come io stavo cercando lui. E con i miei occhi, e con i suoi occhi, nonostante tutto, io e Jack andremo avanti: e vi giuro che ce la faremo. O almeno ci proviamo. Anche se ho la sensazione che dopo la sentenza contro gli assassini di mio padre il mio lavoro sia sostanzialmente concluso. Non vi pare?<br /><br />La sentenza di primo grado venne confermata nel dicembre del 2002, in appello. Anche in questo caso, i giudici non persero l’occasione di sottolineare le grandi qualità umane e professionali di Mario Francese e affermarono senza mezzi termini che “con la sua morte si apre la stagione dei delitti eccellenti”. E che non fu affatto casuale che fosse stato lui il primo di quel lungo rosario di sangue. Mario Francese era un protagonista – scrissero i giudici – se non il principale protagonista, della cronaca giudiziaria e del giornalismo d’inchiesta siciliano. Nei suoi articoli spesso anticipava gli inquirenti nell’individuare nuove piste investigative.” E rappresentava “un pericolo per la mafia emergente, proprio perché capace di svelarne il suo programma criminale, in un tempo ben lontano da quello in cui è stato successivamente possibile, grazie ai collaboratori di giustizia, conoscere la struttura e le regole di Cosa nostra.” <br />L’impianto accusatorio resse anche in Cassazione. Tre boss, tuttavia, vennero assolti: Pippo Calò, Antonino Geraci e Giuseppe Farinella. Loro non c’entravano. Ma la sentenza, nel dicembre 2003, confermò le altre condanne. Ma tutti questi ultimi avvenimenti processuali. Giuseppe Francese non poté seguirli. Infatti, subito dopo la sentenza di primo grado, decise che la sua vita era ormai appagata. Decise che ciò che doveva fare nella vita – vedere in galera chi gli aveva ammazzato il padre – era stato fatto. Lo scopo ultimo della sua esistenza era stato finalmente raggiunto. Giustizia era fatta. Il 3 settembre del 2002 fece l’ultima, definitiva scelta: svoltò l’angolo della vita, suicidandosi. Avrebbe compiuto 36 anni sei giorni dopo, il 9. E non servì, per farlo desistere, neanche la compagnia di Jack.<br /><br /><br />Int’o culo alla mafia!<br /><br />C’è un passaggio del testo dell’amico Tramontana su Mario Francese che rende perfettamente l’idea di che cos’è la mafia, anzi, di che cos’è la “cultura mafiosa”, che per me è anche peggio:<br />“Il contrabbando di droga, sigarette, valuta e preziosi è la principale attività che consente alla mafia di dominare la malavita dei quartieri imponendosi come fonte primaria di lavoro. Migliaia di disoccupati, di invalidi, di persone appena uscite dal carcere vivono infatti di contrabbando. Da non sottovalutare un aspetto sociale di fondamentale importanza: sono tutte persone distratte da reati più gravi come gli scippi, le rapine, i furti.”.<br />Fonte primaria di lavoro … Come potete pensare che la gente, i poveracci, non li copra, non li protegga, quando la mafia permette a questi di campare con le loro famiglie? Quando lo Stato, le Istituzioni o i Servizi sono praticamente latitanti? Se ne approfittano del bisogno della gente, ma risolvono i loro problemi, perché mai dovrebbero tradirli e denunciarli? Dovendo scegliere tra le due alternative, da un lato una vita di omertà ma con un guadagno anche sporco ma sicuro e dall’altro una vita onesta ma priva di certezze e sostentamento, la maggior parte sceglie: “Int’o culo allo Stato!” – per dirla con le parole dell’Onorevole Cetto Laqualunque del bravissimo Antonio Albanese. E non si capisce che, alla fine, chi se la prende a quel posto è proprio la povera gente che pensa all’immediato vantaggio che può ottenere dal boss di turno che garantisce protezione e lavoro.<br />E’ un po’ come accade quando anche noi tutti (chi non l’ha provato almeno una volta?), seguendo la chimera di un immediato ma falso risparmio, accettiamo la proposta del venditore, del professionista o del lavoratore autonomo di non chiedere la fattura per non pagare l’IVA: prima o poi il tutto ci tornerà addosso solo a noi, utenti finali, banali consumatori o lavoratori dipendenti che non abbiamo modo di evitare la deprecata imposizione fiscale che sarà sempre più aspra, grazie al nostro “amico” che si sarà ben guardato di denunciare le cifre da noi scioccamente pagate senza fattura. E’ lo stesso principio a muovere due fenomeni di malaffare, dirò di più, di malcostume, sempre più diffuso.<br />Ma forse è quello che cerchiamo, è proprio quello che questo Paese vuole? Pare di sì, dal momento che sembra proprio che la “scorciatoia”, la “semplice via” è così tanto perseguita. Siamo quelli che ai semafori segnalano di voler girare da una parte, superando così la lunga fila di auto e poi, un attimo prima, girano dalla parte opposta …<br />Pur confessando una notevole sfiducia per quanto riguarda la “generale” capacità di analizzare in profondità gli eventi politici e la reale voglia di fermare il degrado socio-culturale in cui sta scivolando questo Paese, credo e spero ancora e soprattutto nei giovani. Se riusciremo a dare loro ancora un po’ di fiducia, essi risponderanno senz’altro alle istanze di onestà, solidarietà ed unità che vanno sostenute e perseguite per combattere tutto ciò.<br />Mi viene a tal proposito in mente un episodio, avvenuto non molto tempo fa in un quartiere di una città medio grande, di cui però non ricordo più il nome: ebbene, dinnanzi all’emergere di una situazione criminale, di spaccio e furti dovuti fondamentalmente alla soporifera inerzia in cui stava sprofondando il quartiere, i cittadini, forse facilitati dalla bella stagione, hanno incominciato a riunirsi in locali e in mezzo alle strade, per discutere, giocare, ballare o guardare qualche bel film; insomma, si sono riappropriati delle loro strade, della loro vita, unendosi, rimanendo solidali. Beh, non ci crederete ma tutto quel sano “bailamme” ha scoraggiato e allontanato i cattivoni!<br />La morte di tutta quella brava gente di cui si racconta purtroppo nel testo, gente che credeva nella forza delle parole e, soprattutto, nella conoscenza e nella consapevolezza, e che non voleva “appecoronarsi”a pochi squallidi individui, mi ha riportato alla mente una bellissima frase di Bertolt Brecht che lessi molti anni fa, sempre nell’occasione di celebrare altri sacrifici di altre brave persone:<br />“C’è gente che lotta per qualche tempo,<br />alcuni anche per molto tempo,<br />ma pochissimi danno la vita.<br />Abbiamo bisogno di questi”.<br />Ecco, noi abbiamo bisogno di questi eroi ma loro hanno bisogno di noi; non possiamo permetterci di lasciarli soli.<br />Io credo che solo così si possono sconfiggere fenomeni come quelli sopra descritti, che sembrano essere come cancri incurabili, destinati ineluttabilmente a rimanere abbarbicati al tessuto vitale di questo nostro mondo. Io mi domando: perché? Chi ce l’ha ordinato, il dottore, di tenerci queste schifose zavorre addosso?<br />Io non ci sto e stavolta ci dico io: “Int’o culo alla mafia e compagnia bella!”.<br /><br /><br /> Massimo D’OnofrioALTRiTALIAhttp://www.blogger.com/profile/09128053771899935682noreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-4298065194492417554.post-63158580000308699792010-03-15T01:36:00.000+01:002010-03-15T01:39:44.362+01:00I grandi banchieri ossia i pirati e usurai mondialiSu queste pagine sono già apparsi illuminati articoli del dott. G. Armenise, del Prof. Giacinto Auriti, del dott. Bruno Traquini, del dott. Franco Adessa, sull'iniquo sistema bancario-finanziario nazionale e internazionale (1). Data l'importanza per tenere viva l'attenzione, ripsopongo l'argomento, cercando di esporlo in modo semplice e comprensibile anche ai non specialisti. Il vigente sistema bancario mondiale è il mezzo attraverso cui i grandi banchieri si fanno proprietari della moneta circolante e si arricchiscono, e dominano sempre più; e le persone ed i governi nazionali subiscono questo furto e affogano semore più nell'indebitamento, e nella dipendenza economica, politrica, culturale. Queste le tappe storiche per giungere ai meccanismi di espropriazione del capitale, di interessi ed usura, e di dipendenza.<br /><br />Contro un po’ d’oro e argento: montagne di carta-moneta<br /><br />Fino al Medioevo, il mezzo di credito e di scambio, cioè la valuta, era costituita da metalli preziosi (l'oro e l'argento) e, per ragioni di sicurezza, i proprietari cominciarono a depositare le loro ricchezze presso gli orafi, che disponevano di camere blindate adatte alla loro custodia. Fu loro affidata anche la possibilità di "conio", ossia di coniare le monete e i lingotti, in modo di accertare la quantità del metallo prezioso contenuto, ed il valore di ogni moneta e lingotto. A fronte di questi depositi di oro e argento, gli orafi/banchieri emettevano "ricevute" di carta che servivano ai proprietari per i loro pagamenti e acquisti. Constatata la praticità del sistema, la "carta-moneta" o "banconota" (che era garantita dal deposito equivalente di oro/argento nelle banche degli orafi) si diffuse grandemente e si impose come il mezzo prevalente di scambio. Già a questo punto iniziò una prima forma di furto e usura: gli orafi/banchieri capirono che in qualsiasi momento, solo una frazione dell'oro e dell'argento veniva ritirata dai proprietari; allora, pensarono, "perché non prestiamo delle "ricevute", "carta-moneta" anche ad altre persone che non possiedono l'equivalente in oro e argento e inoltre le tassiamo d'interessi?". Le autorità statali, o perché non chiaramente consapevoli della gravità dell'insidia, o perché conniventi e corrotte dai banchieri, hanno permesso questo. Di conseguenza, i banchieri hanno prodotto "dal nulla" (cioè senza avere un corrispettivo controvalore di oro o di argento in deposito) grandi capitali di carta/moneta che a loro è costata solo il minimo costo di stampa, ma che hanno prestato ai privati ed agli Stati, al valore nominale, cioè secondo il valore stampato sulle banconote. Ad esempio, dietro richiesta di un prestito di 200 miliardi di lire, hanno stampato 2.000.000 di banconote da lire 100.000. Il costo della stampa delle banconote è 500 milioni, il valore nominale delle banconote è 200.000 milioni. La differenza: 199.500 milioni è il guadagno di emissione, o "diritto di signoraggio". "diritto" che, in realtà, è solo un enorme "furto". L'aver ristretto il potere di stampare banconote alle sole banche centrali emittenti, non ha tolto la basilare iniquità di questo meccanismo, sia in se stesso, sia per la reale identità e proprietà delle "banche centrali emittenti".<br /><br />Montagne di banconote da restituire con interesse: il che indebita i privati<br /><br />Inoltre, i banchieri centrali, non contenti di essersi appropriati del valore delle banconote stampate, concedono il prestito, a un privato, richiedendo poi la restituzione della somma iniziale, aumentata dell'interesse del 10% o del 20% all'anno. Da dove viene questo interesse? Dall'attività e dal lavoro di chi ha chiesto il prestito. Così, il sistema dei banchieri succhia la ricchezza prodotta dal lavoro e, per tutelarsi di questa restituzione aumentata dall'interesse, chiedono pegni e garanzie su terreni, case, attività agricole, commerciali, industriali, ecc. Se il prestito non viene restituito alla scadenza, maggiorato dell'interesse, la banca pignora e si appropria dei beni in garanzia.<br /><br />...e indebita anche gli Stati<br /><br />Difficile a credersi, ma purtroppo vero: anche gli Stati, dietro pressione dei politici fiancheggiatori (fatti eleggere dai banchieri, con laute sovvenzioni durante le campagne elettorali!), si sono prestati a questo furto e usura. Cioè, anche gli Stati hanno chiesto grandi prestiti ai banchieri centrali, per le spese del bilancio statale, per costruire opere, per fronteggiare guerre, ecc., e hanno dato in garanzia ai banchieri, a pari valore nominale delle banconote ricevute, dei "Titoli di Stato" o a lunga scadenza (es. CCT), i quali, oltre al dovere della restituzione del capitale, sono gravati di interessi. E da qui è iniziato il crescente indebitamento anche degli Stati nei confronti dei banchieri. E la necessità di aumentare le imposte ai cittadini per poter pagare gli interessi della massa dei titoli di Stato dati in "garanzia" ai banchieri.(ndt: quando è lo Stato ad essere insolvente, si parla di "privatizzazioni". Indovinate chi compra?)<br /><br />Due colpi grossi: diventare Banca Emittente e dare i prestiti di guerra<br /><br />Due settori si sono dimostrati eccezionalmente redditizi per i banchieri: essere autorizzati quale "banca centrale emittente" ed i "prestiti di guerra".<br /><br />La “Banca Centrale Emittente "<br /><br />Prospettando l'utilità della moneta unica nazionale, e alimentando ad arte il pubblico sospetto e diffidenza che, se fosse il singolo governo ad emettere banconote, lo farebbe secondo i propri particolari interessi politici, i banchieri più potenti, con l'appoggio dei loro soliti fiancheggiatori politici, sono riusciti ad ottenere dallo Stato il diritto di fondare la "banca centrale emittente". Il che significa che lo Stato, per il fabbisogno di moneta circolante, delega alla banca centrale di stamparla. La banca centrale la stampa (con spesa che è una percentuale infima rispetto al valore nominale) e la da alle Casse dello Stato, facendosi dare in cambio un pari valore nominale di "Titoli di Stato", fruttiferi di interessi. Cioè, la banca centrale, dietro ad un minimo costo di stampa, con un furto all'intera nazione, si fa proprietaria di tutta la moneta nazionale, che addebita alla comunità tramite lo Stato, richiedendo in garanzia dei "Titoli di Stato", che, inoltre, sono caricati di interessi annui, che sono complessivamente enormi, dato che è elevatissima la massa di carta-moneta circolante. Quando la massa di moneta circolante è insufficiente, o quando le Casse dello Stato sono vuote, e lo Stato non può pagare gli stipendi dei pubblici dipendenti, e non può fare opere pubbliche, ecc., o si rivolge direttamente ai cittadini chiedendo denaro in prestito e offrendo loro direttamente "Titoli di Stato" (es. BOT o CCT) (il che è legittimo, perché corrisponde ad un prestito reale ed effettivo), oppure chiede nuova carta-moneta alla banca centrale, la quale la stampa, se ne fa proprietaria, e l'addebita (cioè la ruba) alla Nazione e, inoltre, chiede a garanzia, a pari valore nominale, dei "Titoli di Stato" fruttiferi di continui interessi annuali. Ulteriormente incredibile, ma vero, oltre al diritto di "signoraggio" di stampa e appropriazione del denaro nazionale, anche maggiorato degli interessi annui dei "Titoli di Stato" corrispettivi, i grandi banchieri sono riusciti, poi, ad ottenere dallo Stato (tramite i soliti rappresentanti politici loro compiacenti) il potere di regolare (secondo il loro interesse) la quantità e la circolazione del denaro e del credito, come pure il potere di decidere il "tasso di sconto".<br /><br />I Prestiti di Guerra<br /><br />I grandi banchieri si sono accorti che con oculati "prestiti di guerra" si fanno i più eccellenti affari. Infatti, per avere a disposizione abbondanti finanze e speranza di vincere la guerra, ogni Stato è disposto a fare grandi sacrifici, a cedere le riserve auree e la comproprietà delle attività minerarie, agricole, commerciali, industriali, nazionali, e a pagare alti interessi. I grandi banchieri, inoltre, si sono resi multinazionali, per cui le diverse filiali della stessa banca hanno prestato contemporaneamente agli opposti contendenti e guerreggianti. Spesso, facendosi persino riconoscere dal futuro "vincitore" (per questo più lautamente finanziato e armato), il diritto privilegiato di ottenere la garanzia del pagamento di tutto il prestito concesso alla parte "vinta" (ovviamente mediante espropriazione dei beni della Nazione vinta). Un solo esempio tipico, quello dei rothschild nella Seconda Guerra mondiale. I rami americano, inglese, russo, ecc. hanno prestato denaro ai loro governanti e hanno fatto ottimi affari. Ma ha fatto ottimi affari anche il ramo tedesco. I Rothschild tedeschi si sono offerti di procurare al Reich nazista i rifornimenti desiderati, richiedendo di essere pagati in oro e valute pregiate che hanno depositato in Svizzera. Alla fine della guerra, la Germania era semidistrutta, le casse dello Stato totalmente vuote, i grandi industriali - ad es. i Krupp (produttori di acciaio e armi) - ridotti sul lastrico, mentre i Rothschild,a nch'essi tedeschi, erano divenuti ancora più ricchi e più potenti di prima! Ne consegue che, ricevendo enormi benefici dalle guerre (quali concessori dei prestiti bancari e quali proprietari dell'industria bellica che vende armi), i grandi banchieri sono i principali interessati a soffiare sui contrasti nazionali ed inter-etnici ed a fare scoppiare ovunque le guerre. Come diceva A. M. Rithschild: "la guerra è la nostra attività e industria più redditizia"!<br /> mercoledì 30 dicembre 2009 alle ore 15.49<br /><br /><br /><br />Note:<br />(1) G. Armenise, "Quando Banca fa rima con Usura", Chiesa viva n.325;<br />G. Auriti, "Eliminare i debiti o i popoli? L'euro di chi è?", Chiesa viva n.327;<br />"Note di filosofia del valore", Chiesa viva n. 330; "Valore indotto, valore creditizio e signoraggio", Chiesa viva n. 334; "Giustizia monetaria", Chiesa viva n. 345;<br />Bruno Tarquini, "La moneta, la banca e l'usura", Chiesa viva n.336, 337, 338;<br />F. Adessa, "Il governo di A.M. Rothschild", Chiesa viva n. 337, 338.<br />Il meccanismo bancario della creazione di denaro costituisce una vera e propria truffa ai danni dei cittadini. (di Nereo Villa)<br /><br />Fonte: Chiesa Viva<br /><br />Mensile di formazione e cultura, Direzione, Redazione e Amministrazione: “Operaie di Maria Immacolata” e Editrice Civiltà – via Galileo Galilei, 121 - 25123 Brescia - c/c postale n° 11193257 - tel e fax: 030-370.00.03 - 20 pp. 24x31,5 ANNO XXXIV - N° 363 LUGLIO-AGOSTO 2004<br /><br /><br />(visto su signoraggio.com)ALTRiTALIAhttp://www.blogger.com/profile/09128053771899935682noreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-4298065194492417554.post-2532735565040692022010-03-10T01:03:00.000+01:002010-03-18T11:05:24.611+01:00SEMINARIGRAFOCONSULTING Seminario di Grafologia<br /> D.ssa Simona Tuliozzi<br />Profilo della docente<br />Simona Tuliozzi, grafologa diplomata c/o la Scuola italo-francese Agif;<br />laureata c/o l’Università “La Sapienza” - Roma in Sociologia, indirizzo Comunicazione e Mass Media; docente di Antropologia Culturale nella facoltà di Medicina, Corso di Scienze Infermieristiche c/o l’Università di Tor Vergata – Roma;docente di Grafologia a Ragusa.<br />www.simonatuliozzi.it <br />stuliozzi@libero.itALTRiTALIAhttp://www.blogger.com/profile/09128053771899935682noreply@blogger.com0